A volte succede che in un giorno lavorativo qualsiasi ci si ritrovi intorno ad un tavolo a parlare di quarant'anni fa, di quando nel 1968 si era parte integrante di un movimento che fu unico nella storia contemporanea. Si sfogliano distrattamente i numeri de “La Sveglia”, il giornalino scolastico del Liceo Classico e Scientifico di Molfetta, e fra il racconto dell'elezione di Miss Liceo '68 /'69 e la partita di calcio stravinta dalla squadra del Liceo Scientifico, si ritrovano i pensieri dei ragazzi di allora e il titolo, forte e ingenuo allo stesso tempo: “Vogliamo cambiare il nostro Liceo!”. In copertina una foto in bianco e nero e uno dei presenti si riconosce: caso vuole che indossi ancora occhiali della stessa forma, stesso taglio di capelli e stesso sorriso divertito. UN INCONTRO IN REDAZIONE Cinque «ragazzi del Sessantotto» si sono raccontati alla redazione di Quindici per un incontro unico nel suo genere: Peppino Panunzio, Pietro Ragno, Alina Gadaleta Caldarola, Nunzia Scardigno e Ignazio Pansini insieme al direttore di Quindici, Felice de Sanctis (in quegli anni, prima collaboratore e poi direttore della Sveglia), hanno analizzato il loro percorso di vita attraverso i movimenti studenteschi di quell'epoca. Tutti allora poco meno che ventenni, con un Sessantotto privato e pubblico da narrare ai ventenni di oggi, confusi più che mai in questo quarantennale. Cosa è rimasto a distanza di tanti anni delle ideologie, dei desideri dei ragazzi di allora? E' cambiato effettivamente qualcosa con le lotte del movimento sessantottino, o si è ancora qui a cercare di tirare le somme di un fallimento storico in piena regola? Ma soprattutto: cosa è successo quell'anno a Molfetta? MOLFETTA NEL '68 La città, allora, viveva di riflesso le lotte nei grandi centri urbani: Bari era vicina e molti, frequentando l'università, importavano nella quiete molfettese le idee rivoluzionarie di allora. E' quasi leggenda il racconto dell'occupazione al Liceo Classico, con il preside Savino Blasucci che pregava di ritornare alla normalità quando ormai era già stato chiuso fuori i cancelli della sua scuola. Il tema portante della contestazione era ovunque lo stesso: la passione politica dominava e si concretizzava nella lotta contro nemici ben precisi, capitalismo e destra fascista. Nel proprio piccolo si viveva il drammatico dualismo dei figli della borghesia che si s c o n t r ava n o contro i propri padri, le proprie famiglie, per scardinare la sovrastruttura rigida delle regole sociali e di comportamento. Alina Gadaleta Caldarola ricorda il proprio impegno nei movimenti femministi, per quella lotta all'emancipazione che stava appena nascendo in Italia. Nel 1968 non c'erano leggi né sull'aborto, né sul divorzio; si trattava di una società quasi patriarcale nella quale le giovani donne cercavano il giusto riconoscimento. Ci si lanciava nelle lotte ideologiche con forza e passione, ma non era solo un fenomeno di costume: anche la scelta che parrebbe puramente estetica dell'Eskimo, dei jeans strappati, dei capelli lunghi, nulla aveva a che fare con la moda, ma era la punta dell'iceberg, la manifestazione più evidente del dissenso. Erano scelte di vita: adesso è rimasto solo il consumismo di massa. Ciò che prima era passione, adesso è moda; i jeans che prima si strappavano per consunzione, adesso sono venduti già lisi, e paradossalmente quello che prima era una conquista adesso è solo un altro punto di partenza. Ma questa non è la riflessione di un gruppo di nostalgici: sarebbe stato un delitto storico rimanere fermi nelle posizioni di quarant'anni fa e tutti i presenti ne sono consapevoli. Peppino Panunzio riconosce, con onestà, che il moto interiore dei sessantottini partiva dall'esigenza di dover cambiare la scuola, il lavoro, il rapporto con la famiglia e con le ideologie. Ripete più volte di aver un ricordo vago dell'anno '68 in particolare, ma che in realtà collega ad esso un decennio intero, fatto di attivismo sociale e politico, di scelte, esperienze ed evoluzione personale. Già da ragazzo aveva il sospetto che non sarebbe rientrato in certe logiche, un diverso allora come adesso, che ha lottato per creare il suo posto nella società civile. E proprio a partire dal 1968 è nata l'esperienza di Mani Tese, associazione guidata dai Padri Comboniani di Bari, che ebbe a Molfetta una delle sedi più attive in Puglia, e forse nell'intero Meridione. Anche Pietro Ragno era fra i ragazzi di Mani Tese e racconta di uno dei primi sit nella villa comunale di Molfetta, quando si provò a sensibilizzare l'opinione cittadina sui grandi temi di allora e sui lavori che l'associazione portava avanti. Raccoglievano cartoni e materiale di risulta per mettere insieme pacchi di assistenza da spedire in Africa, a Bari pulivano le cantine dei cittadini che lo chiedevano, e, nel mondo dei capelli cotonati, delle sottane lunghe e degli occhialoni da vista, entravano questi ragazzi coi pantaloni a zampa, con gli zoccoli, la barba lunga e i foulard al collo, che lavoravano come matti, che contestavano, anche duramente, mache la sera ritornavano comunque a casa per cena, perché i valori veri, quelli c'erano sempre. Forse però, ammette Pietro Ragno, il Sessantotto li ha un po' illusi questi ragazzi, li ha convinti che tutto sarebbe cambiato, ma poi in realtà, a vedere la situazione d'oggi, ci si rende conto che il cambiamento, si, c'è stato, ma in peggio. I GIOVANI DI OGGI: PIGRIZIA E PAURA DEL FUTURO Nasce, allora, la domanda chiave: Perché ai ventenni del 2008 non succede? Perché non ci si infervora più per le grandi tematiche? I ragazzi di oggi si saranno fatti questa domanda milioni di volte in una sorta di autoanalisi da età matura, e durante la serata viene fuori una grande verità: adesso c'è pigrizia, tutto sembra già conquistato e si sopravvive nella propria isola, sovrani del proprio egoismo e spaventati dal futuro. Fa sorridere l'idea che nel 1968 tutti i ventenni avevano letto il “Libretto Rosso di Mao” e li si immagina, sconvolti, nell'ardua interpretazione degli scritti di Mao Zedong, lontano anni luce da Molfetta, che portava il comunismo nelle case borghesi. Candidamente si riconosce che nessuno si avventurerebbe più in tali letture: e allora dov'è finita la curiosità, la fame di sapere? Nunzia Scardigno precisa, però, che il 1968 è stato anche il risultato di un movimento globale, partito nella California anni prima e sviluppatosi a macchia d'olio in tutta Europa, con quell'apice straordinario del Maggio Francese, episodio fra i più violenti della storia di quegli anni. E tutti i ragazzi non poterono fare a meno di seguire quest'onda, chi in accordo totale, chi contestandola, ma tutti mettendo in dubbio il mondo che era stato costruito dai loro genitori dopo la seconda guerra mondiale. Il racconto è sempre acceso, dopo tutti questi anni ci si infervora anche solo nel raccontare, nel ricordare, e la mente conserva tutte le conquiste, ma anche tutte le delusioni. Pietro Ragno ricorda la chiusura del movimento per l'Africa Mani Tese, per dissidi con la rigida dirigenza dei padri comboniani, episodio traumatico che deluse più animi, motore di altre scoperte per taluni, motivo di rifiuto di altre esperienze per altri. Il Sessantotto ha avuto le sue sconfitte, questo comincia ad emergere, e ci si rammarica che forse ha insegnato troppo poco alle generazioni d'oggi, che hanno avuto il loro “Vietnam”, il loro “capitalismo”, ma che, per paura di perdere quel precario futuro costruito fra mille rinunce e compromessi, non hanno mosso un dito e, cosa più grave, nemmeno le loro coscienze. STUDENTI E OPERAI UNITI NELLA LOTTA Ignazio Pansini ricorda che quell'anno andò a studiare a Genova e lì il clima era molto più caldo; non era più la pacifica Molfetta, pressoché priva di un movimento operaio, ma si trattava di entrare in un clima di contestazione dura, di scioperi ad oltranza e manifestazioni epocali, di pestaggi della polizia e di scontri coi fascisti. Si aveva paura delle volte, ma ci si lasciava trascinare, seppure con precisa cognizione di causa. Torna, allora, l'immagine dell'onda d'urto che provocò l'unione fra i movimenti studenteschi ed operai, le lotte con il Partito Comunista e il ricordo della continua documentazione che rendeva ognuno protagonista a suo modo. Nel 1968 i ragazzi, per la prima volta, toccavano con mano la rivoluzione: la vedevano passare sotto casa, la realizzavano a scuola, in casa e la respiravano attraverso i giornali. Forse un mondo nuovo era davvero possibile. Ma gli abbagli sono il rischio che si doveva correre per vivere appieno i tempi, gli scontri erano inevitabili tra le centinaia di correnti interne al comunismo, all'associazionismo in genere e tutti vivevano divisioni forzate. Il direttore di Quindici, Felice de Sanctis, racconta, tra le altre cose, l'esperienza vissuta da capo scout che doveva coniugare l'impegno nell'attivismo cattolico ottuso e la personale voglia di partecipare ai cambiamenti, ma riconosce, con gli altri presenti, che in fondo tutti, anche da posizioni e schieramenti diversi, si muovevano per la stessa idea di cambiamento più o meno rivoluzionario. E anch'egli si chiede: perché i giovani di oggi non si ribellano? E forse il guaio della generazione del Sessantotto è stato aver permesso, ai quadri dirigenti dei partiti, ai grandi intellettuali e ai conoscitori della storia, di aver assorbito tutta questa onda d'urto, trasformandola in un moto puramente teorico. C'è un fallimento del Sessantotto ed è tutto nella morte lenta di un movimento con ideali comuni, che non ha creato una realtà politica nuova, sottoponendo i propri ideali politici ad un continuo riciclo, fino a quando il tutto si è esaurito miseramente negli anni Ottanta. BILANCIO DOPO 40 ANNI: FENOMENO IRRIPETIBILE Il confronto di vita cede il passo al bilancio di questi ultimi quarant'anni, non necessariamente un'operazione nostalgia per i soliti sentimentali, ma una analisi critica, lucida per quanto è possibile, che è stata il motivo di questo Forum di Quindici. Cosa è rimasto del sogno di quegli anni? E'opinione comune che tutto ciò che è stato realizzato sia irripetibile, sia per evidenti ragioni storiche, sia per un fastidioso lassismo contemporaneo che addormenta gli animi e le coscienze senza distinzioni di sorta. Nella generazione degli ex sessantottini, seppure con poche ma evidenti eccezioni, è rimasto il trasporto per le proprie battaglie, per innovare e stupire, senza l'ansia del guadagno, ma solo per il gusto di fare. Si riconosce un movimento in questi anni 2000, ma la società di massa ha cambiato le carte in tavola, lasciando a loro il gusto per le grandi assemblee, allora una conquista sofferta, oggi solo una libertà in più. In questo clima di revisionismo, niente viene risparmiato e si etichettano queste grandi esperienze della società degli anni Sessanta come fallimenti; ma probabilmente l'unica colpa è stata aver messo troppa carne al fuoco in tempi fragili. Sono anni che fanno ancora scalpore, che infervorano gli animi di chi li ha vissuti, ma anche di chi li ha scoperti più tardi, creando l'ultimo vero mito moderno. Per chiudere il confronto una provocazione gentile e divertita, il racconto di chi, nato parecchi anni dopo quel periodo, chiedeva continuamente spiegazioni, col piglio di bambino curioso e insistente: «Ma cosa è il Sessantotto?» e si sentiva rispondere da nonni “oscurantisti” «E'un anno in cui sono nati tanti bambini»