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Giustizia negata una storia italiana
15 luglio 2008

In Italia la giustizia è frequentemente negata. Ci sono i potenti di turno che riescono a non far celebrare i processi, in attesa della prescrizione, e, se questo non basta, a proporre leggi ad personam che permettano a imputati eccellenti di salvarsi comunque. Ma la giustizia negata è anche quella delle verità negate per sempre, come è avvenuto per la strage di Ustica. Non sempre «la legge è uguale per tutti » e può accadere che in un processo per omicidio tutti vengano assolti, e magari a ragione, perché non si riesce a dimostrare la certezza dei fatti, ma vengano condannati i giornalisti che hanno cercato di raccontare versioni diverse da quelle ufficiali, sentendo anche altre fonti, come le parti civili, che hanno «osato» costituirsi in un processo scomodo o che «non s'ha da fare». Essere liberi e con la schiena dritta in Italia non paga. E siccome non si riesce a colpire i giornalisti sui fatti raccontati, gli avvocati si tuffano nella ricerca del cavillo, magari dell'errore di trascrizione per colpire senza pietà e dare una lezione esemplare, con la speranza di ridurre al silenzio qualcuno. Accade anche questo in Italia. Ecco perché vi proponiamo un caso di giustizia negata o malagiustizia, una esemplare storia italiana. È quella di Luigino Scricciolo, che ricorda da vicino un film di Nanni Loy “Detenuto in attesa di giudizio”, interpretato da Alberto Sordi, che racconta le disavventure di un italiano emigrato in Svezia che, al suo rientro in Italia per le vacanze estive, viene arrestato alla frontiera e carcerato a causa di una vecchia denuncia della quale era all'oscuro. Sballottolato da un carcere all'altro, il detenuto Sordi viene rilasciato alla fine dell'estate senza nemmeno le scuse. La realtà, a volte, supera anche la finzione cinematografica. È quello che è accaduto a Luigino Scricciolo, che ha voluto raccontare questa sua drammatica storia umana in un libro “20 anni in attesa di giustizia” pubblicato dalle Edizioni Memori in forma di “diario minimo”, con prefazione di Mario Capanna e introduzione di Daniele Repetto, giornalista dell'Europeo. «Luigino Scricciolo il 4 febbraio 1982 è ai Consigli generali Cgil-Cisl-Uil a Firenze. E' un dirigente Uil, responsabile del dipartimento Esteri (il giorno prima ha diretto una manifestazione a favore di Solidamosc). Viene arrestato e portato subito a Roma: l'accusa è “partecipazione a banda armata”. Un mese dopo un'altra accusa: concorso esterno al rapimento del generale Dozier. Insomma, sarebbe un brigatista rosso. Ma anche spia: in aprile nuove accuse di spionaggio (a favore della Bulgaria!) e attentati contro l'integrità e l'unità dello Stato. Si proclama innocente, perché lo è, chiede inutilmente prove, riscontri. Nel giugno 1982 inizia lo sciopero della fame, dopo gli interrogatori del pm Domenico Sica e dalla fulminea richiesta della moglie Paola (spostata nel 1979) di ottenere il divorzio; richiesta accolta, a Paola Elia il tribunale assegna la casa con ciò che contiene, e Scricciolo perde tutto. Un anno di sciopero della fame, bevendo solo acqua e mangiando una mela ogni due giorni), alcuni ricoveri in ospedale. Arriva a pesare 46,7 kg. Sica si oppone alla richiesta di arresti domiciliari, ma nel giugno 1984 i giudici istruttori la concedono. Scricciolo ha fatto due anni e due mesi in carcere, a Rebibbia. Nel 1991 il Tribunale di Verona lo scagiona da ogni accusa circa il rapimento Dozier. Per tutti gli altri reati l'istruttoria viene chiusa, con inaudita celerità, il 6 settembre 2001: proscioglimento pieno. Sono passati 7.171 giorni dalla notifica del primo ordine di cattura. Questa, per sommi capi, la vicenda di un cittadino diventato “detenuto in attesa di giudizio”. Vicenda che nel suo diario Scricciolo racconta senza nascondere l'emozione e la sofferenza, senza fingere di essere animato da chissà quale forza stoica ed eroica. La chiamata a correo da parte di un vero brigatista è stata una mascalzonata, ma come definire gli anni di prigione e di accuse senza che chi di dovere trovasse alcun riscontro? E' vero, non è stato Né il primo né l'unico caso di giustizia ingiusta. Ma questo non toglie nulla alla gravità di quello che è successo, e la testimonianza di Scricciolo è preziosa perché non si deve mai dimenticare l'ingiustizia. Repetto poi ricorda l'agghiacciante particolare che rivela la disumanità dell'istituzione: nessuno, dopo due decenni, ha neppure chiesto scusa a Scricciolo. Conosco Luigino da 30 anni, e non c'è bisogno di aggiungere nulla alle manifestazioni di stima e di affetto di Repetto (socio della cooperativa editrice) e di Mario Capanna (che scrive l'introduzione). Ma al lettore voglio segnalare una stramberia politica evidentemente sfuggita ai sagaci magistrati inquirenti : per anni Scricciolo è stato uno dei più attivi sostenitori del sindacato Solidarnosc. Ve lo immaginate un brigatista che appoggia l'organizzazione anticomunista polacca (promuovendo manifestazioni e raccolta fondi) e che diventa amico di Lech Walesa, protagonista della crisi della Polonia comunista?» (Daniele Repetto, l'Europeo) «Il libro, che vale la pena leggere e che racconta l'esperienza reale di una persona incensurata che all'improvviso si trova coinvolta nelle maglie di un sistema giudiziario incomprensibile, dai percorsi tortuosi e senza via d'uscita. Dalla vita civile alle manette, al carcere, all'isolamento, agli arresti domiciliari. Tutto all'improvviso, e senza un vero perché. E poi il lungo interminabile processo che si conclude vent'anni dopo col pieno proscioglimento in istruttoria, cioè, non c'erano elementi sufficienti nemmeno per celebrare il dibattimento! Magra consolazione per un uomo che ha vissuto un lunghissimo calvario. Un calvario durante il quale ha perso tutto: la libertà, il lavoro, la moglie, gli amici, la casa. E ha rischiato di perdere anche la vita. Una tipica situazione kafkiana, insomma. Vissuta per davvero, però. Eppure Luigino Scricciolo, l'autore del libro, riesce a descrivere la sua drammatica esperienza con tocco poetico, sviluppando un percorso narrativo denso di emozioni, e di grande forza. Una forza che, probabilmente, deriva dal suo stretto legame con la terra, con l'agricoltura. Le sue origini contadine, l'infanzia in campagna, il lavoro nello SCAU, prima, e all'INPS, poi, l'hanno portato sempre ad occuparsi di agricoltura, con attenzione, con dedizione, con amore. Persino quando è stato sospeso dall'impiego, ha preferito rimboccarsi le maniche con dignità e dedicarsi all'attività di giardiniere, piuttosto che pietire protezioni. Perché Scricciolo è fatto così. Ha una grande dignità. E, soprattutto, è un uomo buono, come lo definisce Mario Capanna nella prefazione. Vale la pena leggerlo» (L'Alternativa). In conclusione, dal libro emerge quel sentimento profondo di rabbia che si avverte quando si è coscienti di subire un'ingiustizia per un caso del destino o per un errore umano dovuto a una superficiale interpretazione di norme o di fatti. Una situazione che stride con quella “certezza del diritto” che viene martellata sistematicamente, per tutto il corso di laurea, nella testa degli studenti di giurisprudenza, i quali, una volta lasciata l'università, scopriranno quanto effimera possa rivelarsi quella “certezza” e quanto numerosi errori giudiziari vengano commessi in Italia. Il caso di Luigino Scricciolo è uno di questi. Resta solo l'amarezza per la sua vicenda che sicuramente avrà la solidarietà di tutti coloro che sono vittime di una giustizia negata e che avvertono con rabbia e solitudine la propria impotenza di fronte al “moloc” di una giustizia che, spesso distratta e superficiale, non si accorge che la bilancia pende dalla parte sbagliata.
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