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Giaquinto, il pittore della gloria
15 novembre 2014

Nella biografia di Giaquinto vi è un aspetto sorprendente per chi si non si sofferma agli aridi riporti della cronaca e considera con attenzione quella trama di incontri e di rapporti senza dei quali sarebbero incomprensibili anche lo stile e le scelte artistiche del pittore molfettese. Sebbene non confermato da fonti dirette, l’episodio riportato da Bernardo De Dominici nelle sue Vite1, riguardante un presunto incontro di un giovanissimo Giaquinto con un «eccellente architetto, maestro dell’Opera di San Domenico» che ne scopre il talento e lo dissuade dalla carriera ecclesiastica, risponde non soltanto a un topos letterario, ma a una dinamica di rapporti che era propria di quel tempo e di quella società. Successivamente il Giaquinto viene avviato nello studio del pittore Saverio Porta2, che egli aveva già conosciuto come padrino di cresima3, inserito, quindi, in una rete di relazioni e amicizie in cui l’ambiente familiare appare protagonista a pieno titolo. Il giovane pittore si fece evidentemente notare per il suo talento tanto che nel 1719 il mons. De Luca, marchese di Lizzano, decide di condurlo a Napoli, presso la bottega di Nicolò Maria Rossi, un pittore della cerchia del Solimena che «illeggiadriva in più eleganti cadenze il corrente modulo»Á del maestro. Secondo le recenti ricerche documentarie, la famiglia De Luca era imparentata con Francesco Lepore, padrino di battesimo del Giaquinto4, a conferma di quella cerchia di rapporti familiari di cui abbiamo precedentemente parlato. La bottega del Solimena a Napoli era una sorta di accademia privata, uno studio di gradi dimensioni con innumerevoli collaboratori, di cui ci si vantava anche per essere capitati di passaggio. Se il De Dominici riferisce della frequentazione di Giaquinto presso il Solimena, non dobbiamo pensare, perciò, a un rapporto stretto tra discepolo e maestro, la cui necessità forse non era neppure postulata dallo stesso biografo. Di fatto Giaquinto doveva avere una personalità artistica già abbastanza formata quando nel 1927 si trasferisce a Roma, con una lettera di presentazione dell’arcivescovo di Molfetta, mons. Fabrizio Salerni, indirizzata al suo fratello cardinale Giambattista5, ivi residente. Giaquinto si introduce nell’ambiente della capitale come collaboratore di un pittore professionalmente già affermato come Sebastiano Conca, ma il suo ruolo non sarà mai quello di un subalterno, quanto di un collaboratore di primo livello6. Infatti appena otto anni dopo egli riceverà la sua prima commissione indipendente per gli affreschi nella chiesa di San Nicola dei Lorenesi, nei pressi di Piazza Navona. E’ l’anno 1731 e Giaquinto ha soltanto 28 anni. Tre anni dopo sarà il celebre architetto della corte sabauda, Filippo Juvarra a chiederne la presenza a Torino per i dipinti nella Villa della Regina7. Juvarra aveva completato la sua formazione a Roma, dove aveva mantenuto contatti e rapporti che gli avevano consentito di ricevere notizia del pittore molfettese. Nel 1740 Giaquinto viene ammesso come membro dell’Accademia di San Luca, una delle istituzioni artistiche più prestigiose del Continente: ha trentasette anni ed è giunto all’apice della sua carriera, sebbene manchino ancora tredici anni dalla sua trionfante chiamata presso la corte madrilena. Questa trama di incontri, che ho tentato brevemente di ripercorrere, permette al pittore di ascendere gradualmente agli onori della fama e, benché lo allontani dalla sua città natale, non gli impedisce in più occasioni di mantenere rapporti e commissioni artistiche - come conferma, ad esempio, la serie di dipinti a carattere mitologico per il mons. De Luca e la pala d’altare dell’Assunta, ora collocata nella Cattedrale nuova di Molfetta, richiesta dal vescovo, mons. Salerni - ribadendo il legame con quelle persone che erano all’origine della sua avventura umana e professionale. Il valore tecnico e artistico di Giaquinto non può, di conseguenza, essere disgiunto proprio da queste relazioni, all’interno delle quali sono anche maturate le sue scelte artistiche e i suoi orientamenti stilistici e che possono permettere anche a noi di comprendere adeguatamente la grandezza del personaggio e il suo ruolo storico. Quando nel 1761, nel corso del suo primo soggiorno, il celebre pittore di Dresda, Raphael Mengs, giunge a Madrid per diffondere il nuovo gusto neoclassico, maturato a Roma presso la villa del card. Albani, egli annota che nella capitale spagnola si possono ammirare le opere del Giaquinto, «il migliore pittore a fresco della scuola napoletana», e del Tiepolo, «il migliore della veneziana»8. La testimonianza del Mengs riveste, a mio avviso, una notevole importanza in quanto conferma non solo la fama internazionale di cui godeva il Giaquinto ai suoi tempi, ma fornisce anche una chiara definizione storico critica, indicando nel pittore l’erede della grande scuola pittorica partenopea. Dobbiamo, però, considerare che la fortuna critica di cui egli ha goduto fino ai nostri giorni, non è purtroppo paragonabile a quella del Tiepolo, a dispetto di quello che ritenevano i loro contemporanei. Come ci si può spiegare questa disparità di trattamento? Se si considerano i manuali utilizzati sia nella Scuola Secondaria di Secondo Grado, sia nelle università, se riflettiamo sull’esiguità o assenza di corsi monografici dedicati al pittore molfettese, anche nelle istituzioni accademiche del Meridione, si deve concludere che esiste effettivamente una reale difficoltà a comprendere la grandezza del Giaquinto. Voglio precisare che non si fatica tanto a riconoscerne l’indiscusso valore tecnico e stilistico, quanto a conferirgli un’ampia e adeguata collocazione storica. Ritengo che sia interessante indagare i motivi di questo “silenzio”, come opportunità per rivedere i nostri criteri di giudizio e per comprendere cosa ne ha impedito finora una compiuta riscoperta. Qual era allora l’ambiente che Giaquinto aveva trovato nel suo trasferimento a Roma tra i suoi conoscenti e i suoi protettori? Egli frequenterà, fin dal suo primo arrivo nella capitale, il cenacolo del cardinal Pietro Ottoboni, che risiedeva nel Palazzo della Cancelleria, nel cui interno Filippo Juvarra aveva costruito tra il 1708 e il 1712 un teatro, diventandone per giunta anche scenografo, prima di partire a Torino come architetto ufficiale della corte sabauda8. Sono di casa, nel circolo del cardinale, il noto scrittore italiano Pietro Metastasio, il musicista Giovanni Costanzo e la granduchessa di Toscana, Anna Maria di Sassonia, tra gli animatori di quella corrente letteraria e culturale chiamata Arcadia9. Giaquinto eseguirà, proprio per il card. Ottoboni una serie di dodici riquadri per la Cattedrale di Palestrina, con storie di Sant’Agapito, purtroppo andate perdute, e la famosa Assunta realizzata per la parrocchiale di Rocca di Papa (1739), il cui modello iconografico sarà ripreso, con alcune varianti, anche per il medesimo soggetto commissionato per la Cattedrale di Molfetta10. L’Arcadia, il movimento letterario e culturale a cui Giaquinto prende parte, era impegnata nel rinnovamento della cultura barocca, attraverso una revisione che intendeva riportare il «naturale nella finzione»11, ispirandosi alla civiltà pastorale di un arcaico ed idealizzato Peloponneso, animato dallo spirito del melodramma, sospeso tra realtà e finzione, tra gusto aristocratico e popolare, in una semplicità che ben si esprimeva nell’assumere come protettore la figura di Gesù Bambino. La secolare tradizione bucolica di classica ascendenza si conciliava, perciò, con lo spirito umile e semplice di un rinnovato cristianesimo e la grande macchina teatrale dell’arte barocca veniva stemperata di ogni aspetto lugubre e drammatico, riconducendola nell’alveo di un rasserenante ottimismo. L’Arcadia, attraverso una ripresa degli ideali di armonia e serenità, si propone nella società del primo Settecento come un modello ad un tempo estetico ed etico, che si traduce in un sistema di umana convivenza improntato alla moderazione11. Per usare le parole di Claudio Strinati si tratta di un «razionalismo che nulla ha a che fare con la dottrina illuministica dell’enciclopedismo francese ma che costituisce una faccia tipicamente italiana di quella intellettualità meridionale destinata a profondo e duraturo influsso, prima che il predominio assoluto venga assunto dalla Rivoluzione francese»12. 9 Ibidem. 10 Ibidem. 11 Claudio Strinati, Tutto finisce bene, in C. Strinati, Edith Gabrielli, Giaquinto. Capolavori dalle corti in Europa. Catalogo della mostra (Bari, Castello Svevo, 23 aprile-20 giugno 1993). P. 18. L’adesione di Giaquinto a questo spirito melodrammatico di derivazione arcadica è ben espressa dalla serie delle sue Storie dell’Eneide, realizzate per la Villa della Regina a Torino e in seguito conservate nelle raccolte del Palazzo del Quirinale. Soprattutto nei dipinti a carattere mitologico, il pittore molfettese esprime al meglio quell’enfasi oratoria legata a una gesticolazione manifesta e plateale, usata proprio nella recitazione dei cantori di teatro. Non è, quindi, assolutamente casuale la sua amicizia col celebre e virtuoso cantore di Andria, Carlo Brioschi, detto il Farinelli, che aveva partecipato al poema di Angelica e Medoro, realizzato sui testi del Metastasio e musicato da Nicola Antonio Giacinto Porpora12. Il ritratto che Giaquinto dedica al suo amico Farinelli, in realtà è un doppio ritratto che si inserisce in una lunga serie iconografica di origine rinascimentale (si veda ad esempio l’Autoritratto di Raffaello con Giovan Battista Branconio conservato al Louvre), dove l’accostamento dei due personaggi ne sottolinea l’affinità elettiva e propone un’immagine universalizzata dell’artista: come Carlo Brioschi è capace di svariare virtuosamente sulle diverse ottave della sua prodigiosa estensione vocale, così Giaquinto è in grado di utilizzare tutte le tonalità cromatiche della sua tavolozza, in un crescendo stupefacente di sfumature e di graduali raffinati accostamenti. Non escludo, perciò, che la difficoltà a cogliere l’incredibile portata storica dello stile di Giaquinto coincida con un’estraneità propria della nostra mentalità, che sicuramente discende ed è influenzata più dall’eredità illuminista che da quella arcadica. Collegato a questa concezione arcadica è un altro aspetto, molto distante dalla sensibilità dell’uomo contemporaneo. Mi riferisco a quella espressione tipica dell’arte del Giaquinto che si può propriamente definire con il termine «gloria». La sua espressione artistica è gloriosa perché è tesa alla glorificazione di un Altro-da-sé e non tende immediatamente alla glorificazione di se stesso ed è strettamente vincolata ad una concezione profetica ed escatologica. Non gli interessa, in altri termini, raffigurare il mondo che c’è, ma quello che verrà. Ecco allora apparire nelle opere del Giaquinto quegli straordinari apparati scenici vaporosi, in cui si dileguano le geometriche strutture architettoniche, le quadrature prospettiche rigorose, tanto care al Tiepolo e al suo collaboratore Girolamo Mengozzi Colonna, poiché egli non vuole definire, misurare, calcolare, cioè non gli interessa fornire una dimensione persuasiva dell’al di qua, ma suggerire il palpito dell’al di là persino tra le quinte arboree dei suoi paesaggi idillici e bucolici. Così egli affida la gradazione dei piani al sapiente miscelamento dei colori, dagli effetti acquerellati degli sfondi, dove la tinta fluisce nel diluente, fino a procedere verso lo spettatore nelle velature più grasse e pastose, ottenendo quelle tonalità perlacee e vitree, congiunte con trasparenze iridescenti, simul- 12 Ibidem, p.22. taneamente naturali e immaginifiche. Alla morte del cardinal Ottoboni, nel 174013, il ruolo di protettore e mecenate del Giaquinto viene raccolto dal cardinal Tommaso Ruffo, che commissionerà nel 1742 a lui e a Sebastiano Conca la decorazione della sua cappella nella chiesa di San Lorenzo in Damaso a Roma, nella stessa chiesa in cui saranno sepolti la giovane moglie Caterina e il figlio Gaspare, morti per parto prematuro. Il Conca esegue la pala d’altare, mentre a Giaquinto vengono riservati gli affreschi del soffitto voltato ad ovale, dove raffigura Mosé che riceve da Dio le tavole della legge sul monte Sinai. La visione del Padre eterno è talmente avvolta da un’atmosfera trionfante di nubi e luci folgoranti, da privare la scena di tutti i connotati immediatamente storico narrativi, come se l’evento fosse trasposto in una dimensione ultraterrena e trasfigurata, dove conta solo la visione diretta del divino e tutto il resto svapora nell’indefinito. Un altro aspetto del linguaggio del Giaquinto, strettamente connesso con questa dimensione escatologica e che discende dalla diretta influenza di Luca Giordano, il proverbiale “Lucafapresto” della scuola napoletana, così affine al nostro pittore per la fluidità del ductus pittorico e per la facilità di esecuzione, è una certa “convenzionalità”14 o stereotipia espressiva, ravvisabile nella ripetitività delle fisionomie e dei gesti. Essa non va intesa esclusivamente come un atteggiamento di mestiere, in seguito disprezzato dalla ricerca di autenticità propria della cultura neoclassica e romantica, ma come parte intrinseca di una precisa deontologia estetica e professionale. Essa è parte di quel «teatro dei sentimenti » che Pietro Amato attribuisce alla lettura diretta da parte del pittore molfettese del trattato di Charles Le Brun, fondatore e direttore dell’Accademia reale delle Belle Arti di Parigi, conosciuto probabilmente durante il suo soggiorno alla corte sabauda di Carlo Emanuele III, dove Giaquinto completa il suo percorso formativo a contatto con diversi artisti italiani e francesi, precocemente aggiornati sulle fonti internazionali del Rococò15. Giaquinto segue alla lettera questa “grammatica visiva” fatta di sguardi languidi, braccia spalancate, pose convenzionali, espressioni di riverenza, ossequio, meraviglia per cui non è raro ritrovare un angelo o un santo nella medesima posa o con la stessa fisionomia presente in un altro dipinto distante nello spazio e nel tempo. E’ una rigorosa codificazione di forme che, per il nostro gusto post-romantico può apparire privo di autenticità o eccessivamente convenzionale, ma che corrisponde non solo agli ideali del tempo ma a una specifica qualità del Giaquinto, per il quale l’arte non ha il compito di imitare il verosimile, ma di illustrare il non-visibile, attraverso un sistema di segni convenzionali, ma non privi tuttavia di una certa naturalezza. Giaquinto si riallaccia, in questo modo, a uno dei filoni più importanti della cultura cattolica post-tridentina, in cui il valore delle immagini di culto era stato profondamente revisionato, alla luce delle critiche di parte luterana, accentuandone il valore emotivo ed espressivo a scapito delle tendenze più intellettuali emerse nel periodo rinascimentale. Per quanto la sensibilità di Giaquinto possa sembrare lontana dal nostro gusto, non dobbiamo dimenticare che il suo stile fece scuola quando, all’Accademia di San Fer- 15 Pietro Amato, op. cit., p.24. nando a Madrid, egli ebbe allievi del calibro di Francisco Bayeu, Antonio Gonzalez Velasquez e, soprattutto, Francisco Goya16. Riguardo a quest’ultimo pittore è noto il debito che tutta la pittura del XIX secolo, da Delacroix a Manet, gli deve. Eppure osservando il suo capolavoro giovanile, L’ombrellino conservato al Museo del Prado, ci si rende immediatamente conto di quanto fosse radicata nella sua maniera la lezione del Giaquinto, dalle atmosfere degli sfondi, alle espressioni delle fisionomie facciali. Tuttavia a un certo punto della carriera del pittore spagnolo, quei colori mutano gradazione: non è la pennellata che cambia, ma il tono della rappresentazione, in un passaggio epocale da un mondo ancora ricco di speranza e di fiducia nel futuro, ad un altro, drammaticamente ripiegato sui mali e le tragiche aber- 16 Ibidem, p. 15. Cf. anche Francis Haskell, Patrons and Painters, London, 1963, tr. it. V. Borea, Firenze, 1966, secondo il quale l’influenza del Giaquinto su Goya fu «più grande di qualsiasi altro pittore italiano» (p.454) razioni della civiltà moderna. Appartiene, invece, agli ultimi anni del Giaquinto il dipinto Giustizia e Pace, di cui un esemplare è conservato al Museo del Prado. L’allegoria rievoca il salmo davidico17 secondo il quale «amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno; la verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo», mentre alla profezia del profeta Isaia18 appartengono le figure del leone e dell’agnello che dimorano insieme, poste sulla destra della tela, in una visione di pace in cui tutte le contraddizioni e le contrapposizioni sono sanate e superate. Eppure la biografia del pittore, segnata da gravissimi lutti familiari, si presenta tutt’altro che pacifica e serena, per cui non si può pensare, riguardo a questo dipinto, che si tratti soltanto di un soggetto consacrato da una consolidata tradizione iconografica cui Giaquinto aderisca in modo esclusivamente formale, ma di un’intima e convinta partecipazione al contenuto del soggetto trattato. E’ evidente, in conclusione, che l’apprezzamento della pittura del Giaquinto spinge ciascuno dei suoi estimatori ad uno sforzo di immedesimazione che passa attraverso la profonda comprensione del contesto storico in cui l’opera del pittore è stata generata. E’ forse non è inattuale raccogliere, in un’epoca incerta e tumultuosa come la nostra, l’invito di Giaquinto a guardare oltre le apparenze contingenti per cogliere la verità del presente nella sua radice più profonda e più autentica.

Autore: Prof. Manuel Triggiani
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