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“Fragor et strepitus aliquantulum”
15 maggio 2021

Giovanni Antonio Del Vescovo e Gaetano Magarelli sono gli autori di un libro edito recentemente dall’Arciconfraternita di Santo Stefano dal Sacco Rosso: “l’antico Ufficio delle Tenebre nell’Arciconfraternita di Santo Stefano di Molfetta”. Chiude il volume l’epilogo poetico “Nelle Estasi del Mercoledì Santo’’, di Giuseppe Saverio Poli. E’ un lavoro di ottimo livello, corredato da un ricco apparato di note, e condotto con sicura padronanza della materia. La quale è certamente specialistica, anche se gli autori si sforzano di renderla accessibile. Il primo saggio, di Giovanni del Vescovo, ha per titolo “Liturgia e ritualità della Settimana Santa nella Arciconfraternita di Santo Stefano”. Il Concilio di Trento, per quanto riguarda l’officiatura della Settimana Santa, stabilì delle prescrizioni, contenute nel Breviarum Romanum del 1568, e nel Caerimoniale Episcoporum del 1600. A partire poi dal ‘700 si diffusero manuali liturgici che comprendevano anche le funzioni della Settimana Santa, e, in particolare, la ritualità dell’Ufficio delle Tenebre. Può considerarsi come prototipo di quella letteratura, l’ “Uffizio della Settimana Santa”, pubblicato nel 1704 dall’Abate Alessandro Mazzinelli. Il Cerimoniale del 1600 aveva già previsto che, alla fine delle Lodi, i fedeli provocassero “fragore et strepitus aliquantulum”, percuotendo sedie, banchi e panche della chiesa per ricordare il terremoto che seguì alla morte di Cristo. Elemento fondamentale della cerimonia, è la cosiddetta ‘‘saetta’’, una specie di candeliere triangolare, sul quale sono infisse 15 candele di cera vergine, che vengono spente in successione alla fine di ogni salmo, tranne l’ultima, che rimane accesa e si nasconde dietro l’altare, a rappresentare la Luce del Salvatore. Infine, nel 1847 un altro Ufficio fu pubblicato da Mons. Antonio Martini, arcivescovo di Firenze; come scrive Del Vescovo, “il libro di Mons, Martini divenne un testo di riferimento privilegiato per la comprensione della lingua e uno strumento imprescindibile per chi, nelle confraternite, avesse voluto recitare o cantare l’ufficiatura delle “Tenebrae”. Dalla metà del ‘700, i testi liturgici furono eseguiti sulle musiche composte da Antonio Pansini, organista e Maestro di Cappella del Capitolo Cattedrale di Molfetta. Le partiture hanno subìto inevitabili variazioni dovute al tempo, alla cultura musicale dei cantori e magari anche alla loro “fantasia”. Nei primi decenni del ‘900, i vescovi molfettesi proibirono i canti non contemplati nel “Liber usualis” della liturgia cattolica, che pure allora erano in voga, e che sono da considerarsi perduti. Del Vescovo sottolinea come l’origine e lo svolgimento all’interno della confraternita di antiche pratiche e funzioni paraliturgiche e devozionali siano ancora da scoprire, a cominciare dalle sacre rappresentazioni della Passione, che risalivano al teatro drammatico medioevale, che i confratelli “facere consueverant”, e che Monsignor Bovio vietò nel 1614. Altre ricerche andrebbero fatte per gli allestimenti del Sepolcro, e per la data e luogo d’acquisto delle statue dei Misteri, e per la modalità del loro impiego. Insomma la storia dei riti quaresimali della Arciconfraternita è ancora da scrivere, gli archivi vescovili e anche quelli privati possono ancora fornire notizie e documenti preziosi a chi voglia consultarli con tenacia e passione. Dal 1982 il rito delle Tenebre si officia secondo le modalità codificate nel testo ‘‘Pregando insieme. Raccolta di pie pratiche in uso nella chiesa di Santo Stefano”, curato da Luigi Michele de Palma e Maurizio Scardigno. Dal 1985 la prima Lamentazione, su invito dei padri spirituali pro tempore, è cantata da Monsignor de Palma. Non sono mancati nel corso degli anni ricordi poetici di quelle suggestive funzioni. Nel 1938 Giacinto Panunzio pubblicò una raccolta di poesie: alcune di esse ricordavano l’atmosfera della Settimana Santa; una in particolare, ‘‘Nella sacrestia di Santo Stefano’’, descrive l’Ufficio delle Tenebre. Anche il magistrato Vitangelo Poli accenna alla stessa funzione in un articolo apparso su “Momento Sera” nell’aprile del 1949. Ricordi sulle processioni e sui confratelli cantori si possono leggere in alcune pubblicazioni di Gennaro Gadaleta. Una sua parente, l’indimenticabile “zia Margherita”, dispensava ottimi taralli ai figli dei confratelli stanchi ed infreddoliti, compreso il sottoscritto. Per quanto ci si illuda di dominarla, la memoria agisce con dinamiche autonome, indipendenti dalla nostra volontà e dai nostri desideri. Si affaccia improvvisamente alla coscienza con eventi, situazioni, persone, che avremmo preferito giacessero per sempre nel nulla, e invece ci priva a volte di piacevoli momenti che invano cerchiamo di rivivere, o magari di conoscere per la prima volta. Essa è sorella dei sogni, ma non ha di quelli la benevola ed irreale opacità. Eppure non è buona né cattiva: è semplicemente il film della nostra vita. Uno dei meriti dei riti pasquali di Santo Stefano è quello di “gestire” la memoria dei confratelli, unire i viventi agli scomparsi, e di accompagnarli lungo il fluire del tempo. Il secondo saggio del volume, di Gaetano Magarelli, ha per titolo “Esempi settecenteschi di falsobordoni con basso continuo nell’ “Ufficio della Settimana Santa” di Antonio Pansini, Maestro di Cappella della Cattedrale di Molfetta. L’autore, diplomato in pianoforte, organo, e clavicembalo, ha pubblicato saggi sull’arte organaria, e svolge attività concertistica per varie rassegne e festival. E’ attualmente Maestro di Cappella della Cattedrale di Molfetta. La sua ricerca parte dall’esame di una preziosa copia ottocentesca relativa all’ufficiatura del Giovedì Santo, tratta dall’ “Ufficio della Settimana Santa” musicato dal compositore molfettese Antonio Pansini (1703 -1791). Il testimone musicale è custodito presso l’Archivio Diocesano di Conversano. Magarelli, sulla scorta di una accurata ricerca, ritiene che la composizione di Pansini, famosa ed apprezzata in Terra di Bari, e riprodotta in numerose copie che ne hanno inevitabilmente modificato la stesura originale, possa risalire al 1740. L’autore è un musicista e gli va dato atto di essersi sforzato di rendere accessibile ai profani una materia che non è semplificabile oltre un certo limite. Personalmente, ignoravo l’esistenza del “falsobordone”, che, come scrive il Nostro, “si presenta come una composizione a più voci, (solitamente quattro), che procedono per lo più omoritmicamente con cadenze più o meno fiorite dal punto di vista contrappuntistico”. Se poi dall’analisi strettamente musicologica passiamo a quella storica e interpretativa, vediamo che dietro le note ci sono uomini, confratelli, con le loro diverse sensibilità e possibilità vocali, che non sanno leggere le note, ma ricordano, ricreano, e a modo loro custodiscono un mondo ed una tradizione, magari con l’aiuto di chi la musica la conosce, e con tatto la protegge da pericolose (e spesso catastrofiche) derive personalistiche. Segue il breve Epilogo poetico “Nelle Estasi del Mercoledì Santo”, di Giuseppe Saverio Poli. Con forte empatia emotiva, l’autore rievoca situazioni, musiche, atmosfere, tutte legate al Sepolcro e all’Ufficio delle Tenebre. Il passato incombe sul presente, e a tratti sembra annullarlo: l’accusa antica che si muove all’Arciconfraternita, di essere cioè una fabbrica di sospirose, mortuarie nostalgie, sembra materializzarsi in una prosa densa di richiami poetici, germogliati dal flusso incalzante dei ricordi. Ma l’accusa è infondata. Intanto l’opera dei Padri Spirituali è sempre stata vigile nell’invitare i confratelli ad astenersi dal percorrere languori decadenti. E poi io ho sempre creduto che la morte e la vita scorrono nello stesso fiume, indissolubili. E’ vano voltar le spalle a chi non c’è più: ti si siede accanto quando preferiresti restare in perfetta solitudine, ti fa compagnia, in silenzio. Ed allora questo passato merita gli omaggi appassionati di chi è rimasto, impreziositi dal tempo e dalla nostalgia di stagioni perdute. Ed ora mi si consenta un ricordo personale. Quando, in gioventù alla sera del Venerdì, ci si recava tutti con i camici a casa mia per il pizzarello ristoratore, immancabile ci aspettava sulla soglia il caro zio dottor Michele De Palma. E, come ogni anno, dovevamo subire la sua energica rampogna: “Paganesimo! Paganesimo!” Naturalmente, era soltanto una bonaria dimostrazione d’affetto. Chiude il volume una ricca Appendice fotografica. Sobria ed elegante la veste tipografica. © Riproduzione riservata

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