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Formazione e impresa
07 ottobre 2011

Nei momenti in cui le condizioni economiche generali non assicurano prospettive di sviluppo, si cerca sempre di discutere sulle cause e cercare possibili soluzioni. Purtroppo solo in questi particolari momenti ci si rende conto di come il miglior “fattore produttivo” su cui puntare sia l’essere umano.
La risposta al cambiamento, al rinnovamento, non può che giungere dalla capacità e dalla visione che solo l’intelletto può offrire. Il capitale è necessario ma da solo non è in grado di garantire delle condizioni economiche positive e stabili nel medio e lungo termine. L’innovazione, il progresso tecnologico e ancora altri fattori positivi, sono tutti processi che solo menti stimolate e preparate possono garantire. Pertanto alla formazione dei giovani è affidato un ruolo fondamentale.

In Italia da sempre, e ancor più nel meridione, si reclama una scarsa relazione tra il mondo della scuola e quello dell’impresa. L’evidenza di questo debole rapporto si rende esplicito quando i nostri ragazzi, appena diplomati o laureati, non sono in grado di offrire alle aziende delle competenze specifiche, necessitando di un periodo di formazione sul campo ben più ampio di quello che normalmente dovrebbe servire ad una risorsa che, almeno sulla carta, risulta professionalizzata.
Occorre rivedere le logiche della formazione in cui l’obiettivo finale deve essere quello di garantire un’istruzione che, senza abbandonare le teorie fondamentali, debba essere in grado di fornire degli strumenti operativi da poter subito riutilizzare come elemento distintivo della propria preparazione. Per assurdo gli ultimi grandi innovatori nel mondo economico contemporaneo, dal compianto Steve Jobs (Apple) a Bill Gates (Microsoft) passando ancora per Mark Zuckerberg (Facebook), ci mostrano come dei “non laureati” siano riusciti a cambiare la tecnologia e gli stili di vita non di un gruppo ristretto di consumatori, ma dell’intero mercato mondiale. Sicuramente essi non possono rappresentare la normalità ma evidenziano come nella forza delle idee e nella capacità di vedere nel futuro siano presenti quei fattori di successo che si tramutano in nuovi beni e servizi di successo, partendo praticamente dal nulla. Volendo ripetere i casi di successo appena esposti, non tanto nella loro dimensione quanto nella loro impostazione, occorre guardare oltre il proprio confine, cercando di interpretare e anticipare le nuove tendenze.
Non sempre il mondo della scuola e quello dell’università sono stati in grado di intercettare tali esigenze. Senza soffermarsi su discorsi complessi e molto articolati, una proposta concreta potrebbe essere ad esempio quella di prevedere la frequenza dell’ultimo anno, sia per quanto riguarda la scuola superiore che per quanto concerne l’università, all’interno di una impresa o comunque all’interno di un contesto lavorativo, sia pubblico che privato. Esperienza professionalizzante da predisporre mediante un percorso di studi dedicato, in cui le giovani menti siano allenate non solo all’apprendimento, ma anche alla ricerca, allo stimolo e alla voglia di apportare contributi personali. Un percorso del genere sarebbe un utile strumento non solo per sancire in modo obbligato un rapporto vincente, ma accorcerebbe, riducendolo, il gap esistente tra una cultura fine e se stressa e quanto occorre invece per rendere quella stessa cultura il vero motore dello sviluppo. Una formazione che dialoga con il sistema produttivo e con il mondo del lavoro è una formazione in grado di migliorare e valorizzare il territorio, puntando sulle caratteristiche specifiche già presenti nonché sulle opportunità che possono nascere ex-novo. 
 
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Autore: Domenico Morrone
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1987: tratto e condensato da un articolo di Scott Sullivan – L'economia sommersa è un fenomeno presente quasi ovunque in Europa, una prospera rete sotterranea di attività illegali che sfuggono a ogni controllo e sulle quali non si pagano tasse. Chi fa parte di questa forza lavoro – babysitter e muratori, cucitrici in laboratori di maglieria ed esperti di computer – fornisce beni e servizi pari al 10 per cento circa del prodotto nazionale lordo dell'Europa. Alcuni specialisti si aspettavano che l'economia sommersa, fiorente durante le recessioni degli anni settanta, scomparisse con la ripresa, negli anni Ottanta, dall'economia legale in Europa. Ma non è andata così. Non solo continua a crescere, ma interessa anche settori più “elevati”. Mentre prima era dominio esclusivo dei lavoratori agricoli e di coloro che guadagnavano poco e avevano molto tempo libero, oggi viene regolarmente praticata da contabili, architetti e tecnici di computer. Ovvero quello che oggi spinge tante persone che hanno già un buon posto, moglie e figli, a lavorare di più e in nero non è la necessità ma il desiderio di aver maggior denaro da spendere. Da quando i politici e la stampa, una decina di anni fa, hanno “scoperto” l'economia sommersa, quasi tutti i governi europei hanno preso misure per scoraggiarla o almeno modificarla. Ma mentre questi programmi destinati a contrastare il lavoro nero hanno permesso di recuperare decine di milioni di dollari di tasse evase, non hanno quasi intaccato l'economia sommersa. E' difficile quantificare un'economia che vive sistematicamente nascosta, ed è difficile anche definire che cosa è o non è lavoro nero. Alcuni specialisti considerano europei neri solo i redditi di imprese legali non dichiarati e quindi non soggetti a ritenute fiscali. Comunque lo si valuti il fenomeno è gigantesco. Secondo l'Organizzazione internazionale del lavoro, il lavoro nero in Francia riguarda da 800.000 a 1,5 milioni di persone; in Germania dai due ai tre milioni di persone; in Svezia 750.000 persone e nel piccolo Belgio 900.000. A Parigi, come a Napoli, interi quartieri sono organizzati come immense fabbriche che sfornano vestiti, borsette, guanti e scarpe; vi lavorano notte e giorno gente del luogo e intere famiglie straniere, turche, jugoslave e altre. Le tante e varie misure per osteggiare il lavoro nero, non ha dato risultati positivi. La stessa situazione è evidente anche negli altri paesi europei. Varie aziende hanno dichiarato bancarotta per poi riaprire e appaltare gran parte del lavoro a operai “neri”. In effetti, con un tasso di disoccupazione del 22 per cento, la Spagna potrebbe presto contendere all'Italia il primato europeo dell'economia sommersa. Secondo un sondaggio, circa il 33 per cento dei disoccupati, in realtà lavora. Che cosa ha fatto nascere l'economia sommersa? Forse è stata la reazione a governi troppo presenti e a tasse eccessive. Secondo Enno Langfeldt, ricercatore dell'Istituto di economia mondiale dell'Università di Kiel “è l'intervento del governo nel mercato che spinge a rifugiarsi nell'economia non regolare.” - Cosa è cambiato, e quali sono stati gli interventi della politica ad oggi, ottobre 2011?

La mancanza in Italia di una relazione fra l'andamento dell'economia e l'andamento dell'istruzione secondaria e superiore, o la presenza addirittura di una relazione inversa, indicano che, oltre a quello offerto dalla scuola, non vi sono stati nel nostro paese canali alternativi di mobilità sociale o ve ne sono stati in misura minore che in altre parti. Così la forte domanda di istruzione, l'espansione tumultuosa degli iscritti alle scuole secondarie e all'università, la disoccupazione dei laureati e dei diplomati, che hanno contraddistinto lunghi periodi della storia post-unitaria del nostro paese, e che sono stati moralisticamente attribuiti a un'oscura tendenza psicologica del cittadino medio a dare la “caccia al titolo”, si spiegano anche con le caratteristiche peculiari dello sviluppo economico italiano, il ritardo con cui ha avuto inizio, la sua natura dualistica, le sue battute di arresto. Sono queste caratteristiche peculiari del sistema economico italiano, e la conseguente mancanza di canali alternativi di mobilità sociale, che hanno reso da noi più forte, insistente, talvolta disperata, quella domanda di promozione attraverso l'istruzione che la scuola stessa, per i principi che la regolano e per la natura del sistema di stratificazione in cui opera, tende a provocare in tutte le società capitalistiche. Nel 1906, analizzando le statistiche nazionali dell'ultimo ventennio, Ernesto Nathan scriveva: “ In relazione alla nostra posizione sociale siamo troppo colti e troppo ignoranti, da un lato afflitto dall'analfabetismo, dall'altro dall'universitarismo.” Partita con il 74% di analfabeti al momento dell'unità, essa aveva ancora, all'inizio ndel secolo, circa la metà della popolazione che non sapeva né leggere né scrivere, e per di più presentava dei forti squilibri fra zona e zona (nel 1901 vi erano il 32% dii analfabeti al Nord, il 52% nel centro e il 70% nel Sud.). E' invece molto meno noto che l'Italia fosse afflitta anche da “universitarismo” e che presentasse, già negli ultimi decenni del secolo scorso, una forte disoccupazione intellettuale. Luigi Lucchini, intervenendo nel 1901 alla Camera nella discussione sul bilancio della Pubblica Istruzione, raccontava che per lo spoglio dei dati del censimento, invece di servirsi di “certe macchine americane, che danno un lavoro molto più esatto, sollecito e sicuro”, si era preferito utilizzare “la macchina umana”, “in considerazione di tanta gente a spasso”, e si era aperto un concorso per assumere personale per 15 mesi. Le domande di ammissione erano state ben 3.000, “che poi, stante le più severe condizioni imposte, si ridussero a 1.279: la maggioranza dei concorrenti erano muniti di licenza liceale, mentre bastava la ginnasiale, e fra gli altri si contavano centinaia di avvocati, di ingegneri, d'architetti, di medici.” Censimento 2011????????!!!!!!!???????

Spesso si parla di questo gap tra università/laureati e mondo del lavoro. Ed è vero che un laureato ha difficoltà ad offrire qualcosa di serio ad un'azienda italiana. Secondo me, però, il problema non è il mancato rapporto università/azienda, piuttosto altre due questioni. Oggi le università sfornano laureati (molti più degli anni passati) facendo passare l'idea che tutti hanno il diritto e le capacità per ottenere una laurea. Non è difficile capire che non è così! Le università fanno a gara per accaparrarsi studenti, di qualsiasi tipo, che possano garantire i posti di lavoro ai professori. Sono diventate aziende che hanno bisogno di farsi pubblicità. Quanti studenti conosciamo che si trascinano per anni tra le aule universitarie, senza credere in quello che fanno, solo per ritardare, magari pagati dai genitori, l'entrata nel difficile mondo del lavoro? O solo perchè il mondo li ha convinti che una laurea è cosa giusta? L'altro grande problema è che le aziende italiane (e soprattutto quelle al meridione) NON HANNO BISOGNO DI LAUREATI. O almeno non di tutta questa MASSA di laureati. Ricercano laureati solo perchè ce ne sono così tanti da poter offrire loro uno stipendio da operai non specializzati ed un lavoro che potrebbe fare anche un tecnico non laureato. In Italia le aziende di innovazione sono pochissime. Per il resto facciamo i venditori di tecnologia estera (fin quando qualcuno qui riuscirà a comprarla) oppure produciamo oggetti dal bassissimo valore aggiunto. Le poche aziende di innovazione nei pochi settori in cui l'Italia poteva gareggiare sono ormai morte oppure acquisite da grandi gruppi esteri. Insistere sul potenziamento del rapporto università/azienda vuol dire aumentare ancora di più questo svuotamento dei laureati italiani. L'unico vantaggio è che potranno prima rendersi conto della situazione e pentirsi di aver perso anni della loro vita sui libri.

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