Dormo in macchina e non ho più lavoro e famiglia
«Dormo in automobile e per mangiare mi arrangio come posso. Sto centellinando i risparmi per sopravvivere. Un anno fa non era così, pur essendo rimasto disoccupato, avevo sempre mia madre che mi aiutava. Lei poi mi ha lasciato e ricordo ancora i suoi occhi, quando aveva capito che le restava poco tempo: non aveva paura di morire, era preoccupata per me. Oggi sono senza un lavoro e anche senza una famiglia: totalmente solo. Ma non lo dico agli altri, perché mi vergogno. Gli abiti che avevo e le altre poche cose che mi sono rimaste, le ho parcheggiate nell’officina di un amico, dove vado a cambiarmi quando arriva la nuova stagione. Lì posso usare i servizi igienici e mi arrangio. Avevo un lavoro come agente di commercio e poi sono stato licenziato, anche perché il mio volume di affari si era ridotto, colpa della crisi, colpa anche di internet, dove la gente compra direttamente. Così mi sono ritrovato senza occupazione: sto centellinando i risparmi che ho alla Posta e cerco disperatamente anche di fare qualche lavoro in campagna. Ero sposato, ma anche mia moglie ha perduto il lavoro di commessa al centro commerciale. Così abbiamo deciso di tornare dai rispettivi genitori. Poi la condizione di difficoltà, ha finito per farci separare, anche se non lo abbiamo fatto ufficialmente, per evitare le spese legali e non costringermi al mantenimento. E’ stata una decisione sofferta. Poi anche io ho preferito allontanarmi, per non pesare su di lei. Le ho fatto anche credere che non la amo più. Ma non è vero. Mi porto dentro la sofferenza, sperando che un giorno la situazione possa cambiare. Abbiamo un figlio di 10 anni, che sta con lei e la nonna. Non riesco a vederlo, perché i miei suoceri me lo hanno vietato. E anche io mi vergogno un po’, perché non saprei cosa dirgli: che lavoro fuori? Che non riesco a tornare a casa? Che non posso fargli un regalo? E’ triste. Mi sento in colpa e preferisco soffrire da solo. Non voglio andare alla Caritas, perché mi vergogno. L’amico meccanico mi aiuta ogni tanto, per quello che può, anche lui di nascosto, per non far sapere nulla alla moglie. Sto girando dappertutto, nei paesi vicini, ma finora ho rimediato solo generiche promesse. Eppure i giornali sono pieni di annunci di richiesta di venditori. Ma la mia condizione precedente non mi aiuta: pensano che il mio licenziamento sia dovuto a un mio carattere difficile oppure ad incapacità. Non insisto, perché, psicologicamente non mi sento in grado di fare un lavoro che richiede serenità d’animo. Non credo, poi, di esserne capace. In campagna è diverso, il lavoro riesco a rimediarlo in compagnia di qualche migrante: loro sono più bravi e più forti di me, che ho solo 47 anni. Negli ultimi due anni, ho lasciato anche gli amici: non ne avevo molti, per la verità. Ma frequentarli costava, e ho preferito inventarmi una depressione, così nessuno cercava più la mia compagnia. Per fortuna resisto: non sono depresso e non bevo, come fanno altri». Insomma, questa è la storia di un nuovo povero di quella che era la classe media, scoperta per caso e raccontata con l’impegno, ovviamente, dell’anonimato. Ma è anche una storia d’amore. Oltre alla dignità, quest’uomo conserva la fiducia in se stesso. E non è facile nella sua condizione. E’ sicuro che ce la farà e vuole farlo da solo, con una voglia di riscatto ammirevole. Non è diventato un barbone grazie ai suoi risparmi, ma non ha una casa e non ha più una famiglia. Quando ci saluta nel suo sguardo non c’è commiserazione per se stesso, un po’ di vergogna, ma una inaspettata fierezza: «ce la farò, ce la devo fare!». © Riproduzione riservata