Dino Claudio e l’Isola di Cicno
Dino Claudio e l’Isola di Cicno
È stata una perdita dolorosa per la città di Molfetta quella che si è consumata con la scomparsa, nel luglio 2022, dello scrittore Dino Claudio, all’anagrafe Berardino Claudio. Poeta, narratore, Provveditore agli Studi (non a caso una delle sue prove più brillanti e amare al contempo è il romanzo Il Provveditore, Caltanissetta, Sciascia, 1984), Claudio risiedeva a Roma, ma non aveva mai dimenticato la sua città, trasfigurata magistral- mente nelle Stelle pazze (Roma, Bulzoni, 1994) e in tante sue liriche. Per chi volesse accostarsi alla sua produzio- ne poetica consigliamo Pentagramma del vento (Roma, Edizioni Lepisma, 2008), un florilegio delle precedenti raccolte, con scritti critici sull’autore e una sua bibliografia. Si sono dedicati alla sua opera studiosi come Francesco Tateo, Daniele Giancane, Marco Ignazio de Santis, Emerico Giachery, Giuliano Manacorda, Walter Pedullà, Antonio Bal- samo, Donato Valli, Giuseppe Farinelli, Vittoriano Esposito, Vito Davoli (recentemente) e le scrittrici e saggiste Gianna Sallustio, Jole de Pinto, Maria Grazia Lenisa o ancora Vittoria Sallustio La Piana, per fare solo alcuni dei tanti nomi; senz’altro un ottimo strumento d’approccio è il volume di Bruno Rossi, Dino Claudio: il dolore e la luce, Roma, Bulzoni, 2005. Nell’ambito della narrativa, numerose sono le prove di grande valore artistico; citeremo il suo romanzo più celebre, il bellissimo L’Alba dei Vinti (Venezia, Marsilio, 2002), o ancora il lirico e visionario Le stelle pazze (Roma, Bulzoni, 1994). E che dire della metaletterarietà degli affascinanti Incontri nella nebbia (Torino, Genesi, 2016)? Abbiamo pensato di ricordarlo con quello che reputiamo uno dei suoi testi più rappresentativi, L’isola di Cicno (Bari, Palomar, 1998). Un’isola cara agli dei e loro gradito buen retiro è governata dalla monarchia illuminata del saggio e malinconico cigno Cicno, “che era un tempo un principe avvenente, figlio del re di Liguria, e dal quale l’isola avrebbe poi preso nome chiamandosi appunto Cicnide”. L’arrivo di due pavoni demagoghi (emblemi della superbia e del suo fascino superficiale e distruttivo) sgretola la fiducia che gli animali dell’isola ripongono nel loro signore; la femmina del pavone in particolar modo li spingerà all’assassinio di Cicno, primo di una catena di nefandezze che porteranno all’instaurazione di una mal intesa democrazia. Una “democrazia” che proclama l’uguaglianza di tutti senza riconoscere le diversità dei talenti e delle qualità intellettive e umane; che confonde la giusta aspirazione al trattamento rieducativo di chi ha compiuto un crimine con una tendenza indistinta alla scarcerazione e al reinserimento in società di soggetti pericolo- si e senza scrupoli. Una “democrazia” che disprezza il valore dell’istruzione, che smantella la sanità pubblica. Un’accozzaglia di individui allo sbando, capace di definire “progresso” la perdita del sen- so del sacro e l’abdicazione a ogni virtù. In questa “democrazia” trionfano prima i “rospi”, vessilliferi di una “maggioranza” di individui laidi e senza qualità, e poi i lupi, portatori della violenza feroce e della legge del più forte. L’isola di Cicno è una distopia, che, connet- tendosi alla tradizione favolistica, parla di animali per raccontare le piaghe della società umana. Un tributo alla mitologia antica, perché Claudio intesse con maestria miti metamorfici (si pensi a quello dello stesso Cicno) e reinserisce le acquisizioni della cultura classica in un circolo virtuoso. Si pensi a tal proposito ai concili degli dei presen- tati in chiave straniante, con ammiccamenti a Lu- ciano, ma anche – e qui entra in gioco il recupero dell’antico nella traduzione quattrocentesca – al Leon Battista Alberti di un capolavoro come Momus e, nell’Ottocento, alle Operette morali di Giacomo Leopardi, dalla Storia del genere umano alla Scommessa di Prometeo. È un’ironia amara quella che trapunge L’isola di Cicno e ora si distende in elegia dell’innocenza perduta (le pagine che conducono alla “conversione” di Lupo Primo) e si libra in alto lirismo, ora utilizza la parola materica e persino la precipitazione realistica perché lo stile denunci la deriva etica: “Nel vederli la pavonessa si fece sull’uscio [N.B. non sfugga la straniante ripresa leopardiana] e accennò ad un gorgheggio, ma venne fuori un rutto da far invidia a un maia- le”. Si leggano in tal direzione le medaglie di ster- co che i ministri al governo si appuntano al petto orgogliosamente, ipostasi dell’escrementizia cara- tura dei loro assurdi provvedimenti, o ancora il fetore del carcame e dei rospi trucidati. E poi, per contrasto, v’è la poesia di passaggi come questi, vivida al riaffiorare del motivo del sacro, caro a tutta la produzione di Claudio: “La luna stava sopra di loro bianca e immobile (…) Sembrava rispondere a quegli ululati dolenti con la dolcezza del suo immacolato sorriso e le stelle che la incoronavano la servivano con il loro splendore come un tempo sulla Terra le ninfe servivano le dee”. In quest’opera lo scrittore sembra riassumere con tratto felice l’intera storia dell’umanità: dagli dei pagani e Aristotele alle origini del cristianesimo, dalla Rivolu- zione francese alla crisi della società occidentale, con la crescente denatalità; chiari sono i riferimenti anche alla storia e alla politica italiana (per esempio nelle “convergenze parallele”). La sfida al labirinto è vinta, sebbene forse solo momentaneamente, proprio grazie al senso del sacro, che assume un valore imprescindibile: “Quindi, non la democrazia può salvare – interruppe grave Giove – ma la scintilla del divino che è in ogni animale, malgrado sia quasi misconosciuta”. E poi alle pa- gine dell’Isola egli affida ancora un messaggio di speranza: “il male reca in sé il tarlo della propria distruzione, il male è la punizione di se stesso. Radicato nel non essere torna al non essere, al nulla”. Non è un caso che sul conforto dell’astro di Vene- re nel suo risplendere al mattino e sulla memoria del melanconico e innocente Cicno si chiuda un romanzo scritto più di vent’anni fa eppure attualissimo come tutte le opere di Dino Claudio. © Riproduzione riservata