Corrado Giaquinto e le opere dalla Collezione Bonasia
La Mostra nelle sale della Biblioteca comunale
Proseguirà sino al 16 giugno la mostra “Corrado Giaquinto” con le “Opere dalla Collezione Bonasia”, allestita presso la Fabbrica San Domenico, nella Biblioteca Comunale, a partire dalla data dal giorno 11 maggio, con la curatela scientifica del professor Gaetano Mongelli. L’organizzazione dell’evento è stata affidata dall’antiquario Michele Bonasia, suo promotore, a “Partenope – Associazione Artistico culturale per la divulgazione dell’arte meridionale”, di Molfetta. Le ventitré opere pittoriche e l’inchiostro su carta sono transitati attraverso la collezione Bonasia per poi – come spiega l’antiquario nel Catalogo curato da Mongelli e stampato dall’Editrice L’Immagine – essere acquistati “in diverse collezioni private”. Nell’allestimento, che ha goduto del Patrocinio del Comune di Molfetta, sono stati inseriti anche cinque oli su tela di Francesco Solimena (1657-1747), maestro del Giaquinto. Si spera di non dover spiegare al pubblico molfettese chi sia una delle nostre più grandi glorie cittadine, Corrado Giaquinto (1703-1766), “esponente di maggior spicco del rococò romano”, conosciutissimo anche per la sua permanenza presso la corte madrilena di Carlo III. L’esposizione rappresenta un’occasione importante per accostarsi a opere che, come evidenzia Mongelli, sono “riconducibili alle fasi salienti di Corrado dentro e fuori Roma”. I lavori di Solimena consentono un confronto, ma soprattutto rappresentano un’opportunità di conoscenza dell’opera di uno dei maestri della pittura italiana a cavallo tra Seicento e Settecento. Possenti i due oli che, in differenti dimensioni (202x130 cm e 75x60) ci proiettano nell’eterna contesa tra Bene e Male (San Michele abbatte Lucifero e gli angeli ribelli), declinata in forme composte, in cui all’atletismo dei corpi, muscolosi, alla matericità di piedi e schiene dei vinti si oppone l’aliare dell’angelo, azzurrate le vesti ed efebico il viso, alabastrina la pelle in contrasto l’incarnato vivido dei demoni. E poi colpisce la celebre Addolorata, assorta nell’assecondare un ritmo interiore che induce, meditando, a volgere lo sguardo al cielo. Seguono le opere giaquintesche, con l’incontro tra Enea e Didone nel tempio di Giunone, “in una scena che Giaquinto ambienta sontuosamente tra architetture d’età classica, sovrastate da un imponente velarium” (Mongelli). La mostra introduce nella fucina di Giaquinto, nel suo abbozzare, rivisitare, riproporre moduli migranti a un’opera all’altra. Il Molfettese riesce felice nelle Allegorie (si pensi a quella della Temperanza, di cui si offre anche un inchiostro su carta), perché si avvale di una fitta trama di simboli consolidati dall’iconografia tradizionale per regalare all’osservatore figure di pacata intensità. È una gentile conversazione quella tra la raffinata beltà di Sant’Agnese e l’agnello, suo tradizionale attributo, vuoi per rammentarne le modalità della sua “nascita al cielo”, vuoi per effetto di paretimologia. Colpisce la sovrapponibilità tra il profilo di Agnese e quello della Vergine Maria in un episodio della Legenda Aurea (Educazione di Maria Vergine, tema affrontato anche in un pregevole olio 175x115 cm) ispirato ai vangeli apocrifi, in cui peraltro colpisce la figura di Sant’Anna. In primo luogo, stimolanti appaiono gli esiti delle analisi radiografiche, di cui il curatore dà conto, risultanze che manifestano “pentimenti” del pittore, soprattutto su postura e viso di Anna. Della madre della Vergine sono stati accentuati, tra le altre cose, i caratteri di vecchiezza, in una soluzione che vede la donna abbracciare la figlia, assorta nella contemplazione scaturita dalla lettura del Libro della Sapienza. Sicuramente, uno dei pezzi più affascinanti dell’allestimento sono le due tele raffiguranti una Maga, di cui Mongelli, con acribia, discute le ipotesi identificative, adducendo convincenti prove a sostegno dell’idea che si tratti di Medea. I due oli si distinguono per le dimensioni (131x97 e 136x100), ma anche per tutta una serie di dettagli, a cominciare dal volto della colchica. Nel primo dei due, infatti, Giaquinto accentua l’aura da virago; il viso, bellissimo e in qualche modo affine – paradossalmente – a quello di Agnese e Maria, si distingue per lo strano e inquietante sguardo, oltre che per l’impugnatura della verghetta brandita a mo’ di arma. Non è casuale ch’essa posi sul seno, in entrambe le opere, quasi a evidenziare l’inibizione dell’allattamento. L’elemento che per sineddoche risulta determinante ai fini dell’identificazione è, come chiarisce Mongelli, proprio la tradizionale fibula, che tra l’altro reca nei putti sbalzati un richiamo ai due bambini il cui supplizio è sottratto agli occhi dei fruitori. La fibula mantiene su la veste lasciando scoperto il seno, quasi a dar risalto a mammelle cui più non si accosta la vita. La seconda Medea ha tratti meno mascolini nel viso e si distingue per la maggior preziosità nella resa dell’insieme, ma a nostro avviso non raggiunge la medesima intensità della prima, madre-matrigna il cui smarrimento interiore e la malata energia emergono con ben più alta espressività. Il suo ideale contraltare è proprio l’ “Allegoria della Carita”; qui, la gentile figura femminile che emblematizza la virtù teologale prescelta si volge verso uno dei piccoli angeli che lascia vengano a sé. Ci piace ancora segnalare un Buon Pastore che, come ha evidenziato Mongelli, mostra un’ “assonanza con la cultura figurativa invalsa nel Settecento spagnolo” e il Trionfo di Bacco, ossimorico nel coniugare compostezza e torsione bacchica, in un ritmo euforicamente danzante in cui è tuttavia l’ombra a prevalere. © Riproduzione riservata
Autore: Gianni Antonio Palumbo