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Case di via Fontana, il j'accuse di Matteo d'Ingeo STORIE ESEMPLARI – Episodi di cattiva amministrazione e di strane varianti e proroghe
15 maggio 2003

Il livello di civiltà di una comunità, è noto, si misura anche col metro della memoria. Ricordare passaggi e momenti cruciali della vita passata di una città. Ricostruire fatti e vicende nascoste dentro gli atti amministrativi chiusi negli archivi. Recuperare piccole e grandi storie collettive anche attraverso le carte ingiallite dagli anni. Se poi il passato ha avuto dei risvolti importanti e persino eclatanti nel presente, recuperare memoria diventa doveroso. Non solo perché il ricordo può essere di monito per il futuro. Anche soltanto per il rispetto che si deve sempre alla verità dei fatti. Prolungamento via Aldo Fontana, quartiere fantasma Le palazzine di via Aldo Fontana hanno guadagnato gli alti onori della cronaca l'anno scorso. A novembre, per effetto di un'ordinanza di sgombero firmata dal sindaco. Palazzi a rischio crollo, fu il risultato delle prime perizie ordinate dal Comune di Molfetta. Certo, non che prima di allora di quel “quartiere fantasma” non si fosse parlato e scritto. Disagi, disservizi e stato di abbandono erano, ormai da anni, le parole d'ordine associate all'insediamento di via Aldo Fontana. L'ultimo avamposto a ponente della città. L'isola residenziale tutt'altro che felice posta a confine dell'abitato molfettese. Ma, ancor prima dell'invivibilità di quel quartiere, sta la storia della sua realizzazione. I mille interrogativi della scelta di quell'area. L'articolato e singolare iter che portò alla sua edificazione. Ha provato a ricostruire quei fatti, l'ex consigliere comunale Matteo d'Ingeo nel corso di un incontro organizzato lo scorso 3 maggio dalla locale sezione di Rifondazione comunista. Racconto corposo e articolato, quello di d'Ingeo. In alcuni tratti, diciamolo pure, un vero “pugno nello stomaco”. Difficile da digerire. Soprattutto da parte di alcuni. “Non è un'operazione destinata a incontrare il favore di tutti”, ha esordito Antonello Zaza, consigliere comunale di Rifondazione comunista intervenuto all'incontro. “Ma è importante che questa storia venga letta come frammento esemplare del passato grigio di questa città”. E poi d'Ingeo: “Ho un conto in sospeso con la mia coscienza. Nel corso di una seduta di consiglio comunale del 25 maggio 1995 che avrebbe deliberato sulle opere di urbanizzazione primaria da realizzare in quell'area, io scelsi di uscire dall'aula. Avevo sollevato un problema. Mi ero chiesto, dagli spalti del consiglio: perché a 7 anni dall'inizio della vicenda dell'edificazione di via Aldo Fontana, siamo qui ancora ad occuparci delle opere di urbanizzazione p r i m a r i a ? Non fui ascoltato. Erano presenti, numerosi, i residenti di quel quartiere: firme alla mano, premevano perché quelle opere fossero cantierizzate. E subito. Decisi allora di uscire, per non creare problemi ai residenti. Ma se quella sera fossi andato fino in fondo, forse oggi la brutta storia dello sgombero non sarebbe mai andata in scena”. Vista mare negata: piscine contro case L'inizio della storia di quelle palazzine data 2 giugno 1988. In una comunicazione indirizzata al sindaco di Molfetta (comunicazione che pare oggi sparita dai faldoni ufficiali), l'Italco, impresa edile molfettese, comunicava al sindaco di Molfetta che “il Cer (Comitato per l'edilizia residenziale, presso ministero dei Lavori pubblici, ndr)… ha ammesso, unico per la Puglia, il Piano Operativo presentato dalla nostra Società per la realizzazione in Molfetta di un intervento sperimentale di n. 50 alloggi minimo”. E ancora: “il Pof (Piano operativo di fattibilità, ndr) in oggetto è stato ubicato nel Comprensorio di Levante Lotto 9/b sul suolo in contrada Spina di mq. 5.000 di proprietà del nostro Socio maggioritario rag. Calò Corrado. Poiché durante la fase istruttoria codesto Comune ha nel frattempo individuato tale sito quale area sportiva da destinare alle progettate piscine natatorie, chiediamo che il suolo offerto per la realizzazione del Pof e non più disponibile sia permutato con altro suolo di proprietà comunale, in zona idonea e di pari estensione”. Come dire: contrada Spina, terreno privato, da barattare con un'area di proprietà comunale. Per costruire alloggi in regime di edilizia convenzionata, per i quali l'impresa costruttrice avrebbe intascato un finanziamento erogato dal Cer, pari a 21 milioni di vecchie lire per ciascun appartamento. Dunque, all'inizio della vicenda ai futuri residenti di via Aldo Fontana sarebbe spettata la vista mare. Una vista mare poi negata dai fatti che vennero dopo. Ma non è questa la sola anomalia della storia. L'Italco, nel comunicare le caratteristiche dimensionali dell'insediamento abitativo da realizzare, precisava che l'estensione degli appartamenti non avrebbe superato i 90 mq: in particolare, dei 50 alloggi, 20 avrebbero avuto superficie pari a 45 mq, 15 pari a 70 mq e solo i restanti 15 avrebbero raggiunto i 90 mq. Numeri che, secondo D'Ingeo, non sono poi stati effettivamente rispettati dall'impresa. Non solo. All'epoca del Pof, la stessa Italco dichiarava che i piani fuori terra delle palazzine sarebbero stati 5. Non faceva menzione di box, ma di soli “pilotis da adibire a cantinole”. “Quelle cantinole, però - precisa d'Ingeo – sono state poi disinvoltamente sostituite da veri e propri box”. Le prime anomalie Sin dal primo momento un fattore appare determinante nel prosieguo della vicenda Italco: i rapporti con Roma e con il ministero dei lavori pubblici. Tanto per cominciare: le comunicazioni di Calò in ordine al suo Piano operativo di fattibilità (Pof), in realtà sembrano precedere l'ok del ministero che solo il 30 luglio 1988 comunicava l'avvenuta approvazione di quel piano operativo residenziale, beneficiario dei finanziamenti statali. “Ma all'epoca, dopo la richiesta di altro suolo comunale da parte dell'Italco – commenta d'Ingeo – non era affatto nota l'area su cui gli alloggi sarebbero stati effettivamente realizzati”. Insomma, Roma nel 1988 avrebbe dato l'ok all'edificazione, certo, ma in contrada Spina. In quest'area. Non in altre, del resto non ancora identificate dal Comune. Le istituzioni cittadine, in realtà, non si fanno attendere. Il 7 novembre dello stesso anno viene individuata, per voce del consiglio comunale, l'area da edificare. Ovvero il suolo di proprietà pubblica chiesto dall'Italco appena cinque mesi prima. Si trattava della zona poi nota come “prolungamento di via Aldo Fontana”. Lì sarebbero state realizzate due palazzine Iacp tra le quali l'Italco avrebbe potuto “comodamente” attestarsi. Lungo i binari della ferrovia. E, manco a dirlo, a svariati chilometri da contrada Spina. Altro che vista mare. Ventrella: “Attenti all'Italco”. Ancona: “Chiacchiere da caffè” Ma la strada da percorrere per la realizzazione delle palazzine Italco nascondeva ancora delle insidie. Ostacoli e polemiche politiche anche aspre. Scambi di battuta non proprio cordiali si ebbero già in una seduta di consiglio comunale del 1990 (11 settembre). Protagonisti l'allora consigliere Giovanni Ventrella (Psi) e l'assessore Giuseppe Ancona (Psdi). Ventrella invitava l'amministrazione a vigilare su strane dinamiche di vendita di alloggi, messe in atto dall'Italco. “Che l'amministrazione faccia innanzi tutto una diffida a quella società… là dove avesse effettivamente recuperato quattrini da cittadini che chiamati per la prenotazione hanno versato fior di milioni per essere prenotatari di quei cinquanta alloggi, di restituire immediatamente quei quattrini perché fino a oggi non è stata ancora né assegnata né sono stati fissati i criteri con cui i cittadini molfettesi possono aspirare ad avere un'assegnazione di quel tipo”. Lapidaria la risposta di Ancona, che, commentando la denuncia di Ventrella, chiosava senza mezzi termini: “In consiglio comunale vengono riportate le cose che si dicono davanti ai caffè”. Chiacchiere da bar, insomma. Dalle quali la politica doveva tenersi fuori. Quella sera la polemica sul caso Italco si concluse così. Nello stesso tempo, nel corso della stessa seduta di consiglio, si fissava il prezzo di un suolo. Quello su cui sarebbero sorte le piscine comunali, in contrada Spina: il terreno di Corrado Calò destinato originariamente a quel piano residenziale che già faceva discutere. Il prezzo deliberato dal consiglio fu di 71.500 lire al mq. Per 5000 mq. Poco meno di mezzo miliardo in tutto. Da consegnare a Corrado Calò, proprietario di quell'area. Variante a tempo di record Il passo successivo verso l'edificazione del prolungamento di via Aldo Fontana è ancora del Comune. Che, per mano dell'assessore Ancona, aveva già inoltrato richiesta alla Regione Puglia di approvazione della variante al Piano regolatore generale. Era il 29 ottobre 1990. Il sì della Regione non tardò ad arrivare, dopo soli sei mesi. Nell'aprile del 1991 l'assessore all'Urbanistica della Regione Puglia, dott. ing. Lillino di Gioia, comunicò l'avvenuta approvazione della variante richiesta, precisando che “la localizzazione (futuro prolungamento via Aldo Fontana, ndr)… consente una facile urbanizzazione dell'area con riduzione dei costi da porre a carico della collettività”. Una valutazione poi con evidenza smentita dalla storia di quel quartiere. Le proroghe infinite “Non c'è traccia di successive comunicazioni tra il Comune e il Cer nazionale, che attestino la conoscenza, da parte di Roma, del cambiamento di suolo”, chiarisce d'Ingeo. C'è traccia, invece, delle ripetute lettere di sollecito inviate dal ministero al Comune. Con relative concessioni di proroga: era l'11 ottobre 1990 il termine ultimo fissato per la cantierizzazione dei lavori. Pena la perdita dei finanziamenti statali. Ma per via di proroghe e rinvii, il tira e molla tra Roma e Molfetta, alla fine, durò 2 anni e 3 mesi. A partire dalla prima proroga: 300 giorni, come da comunicazione del Cer inviata nel luglio 1991. Approvazione senza concessione La storia delle palazzine Italco si complica ulteriormente nei mesi successivi, mentre Roma continuava a premere perché l'Italco rispettasse le scadenze di volta in volta fissate. “Quello che mancava perché i finanziamenti potessero diventare operativi era evidentemente la concessione edilizia”, dichiara oggi d'Ingeo. L'atto formale, cioè, con cui il Comune avrebbe dichiarato il proprio sì definitivo all'intervento edilizio. E che all'impresa avrebbe definitivamente aperto le porte dei finanziamenti Cer. E nonostante mancasse ancora questa tappa importante nell'iter di approvazione, nonostante questo tassello determinante non fosse stato ancora aggiunto al quadro della vicenda, il ministero il 3 dicembre 1991 aveva già approvato il “programma definitivo di intervento – Pid - presentato dall'impresa Italco”. “Fatto abbastanza strano – aggiunge d'Ingeo – alla luce anche dei ripetuti solleciti che provenivano in quei mesi proprio dal ministero”. 1992, sindaco Carnicella: stop all'occupazione d'urgenza Il 1992 è l'anno di svolta. A gennaio Molfetta non aveva un sindaco. E' l'assessore anziano Giuseppe Ancona, il 7 gennaio, a dare il via all' “occupazione temporanea e d'urgenza” dell'area individuata per l'insediamento Italco. Un atto che l'assessore non mancherà di comunicare a Roma. Ancona, di proprio pugno, darà notizia al Cer dell'emissione del decreto di occupazione, chiedendo, inoltre, che all'Italco fosse concessa un'ulteriore proroga. “Non si capisce perché - commenta d'Ingeo - in svariati passaggi di questa vicenda sia stato il Comune di Molfetta in prima persona a interloquire con il ministero, anche per fatti che in realtà riguardavano l'Italco”. Tant'è. Il duro e faticoso percorso verso la messa in opera delle palazzine Italco subisce una pesante battuta d'arresto il 21 febbraio 1992. Il sindaco Giovanni Carnicella, a pochi giorni dal suo insediamento, dichiara nullo il decreto di occupazione emesso da Ancona. Con quali ragioni? Perché “il procedimento (autorizzato dal decreto di Ancona, ndr)… è applicabile alle sole opere pubbliche”, recita il provvedimento di Carnicella. Una vera doccia fredda per l'Italco. Non l'unica. Il 4 giugno sempre il sindaco Carnicella azzera anche lo schema di convenzione tra l'impresa Italco e il Comune di Molfetta, approvato dalla giunta comunale sei mesi prima. Carnicella corregge inesattezze catastali del primo schema, deliberandone un altro, epurato degli errori. La storia va avanti. I fatti dell'Italco proseguono a ritmo serrato, anche a pochi giorni dall'omicidio Carnicella. Il 14 luglio 1992, a una settimana dalla morte del sindaco, si conclude la procedura di occupazione d'urgenza. E' l'assessore anziano Vito Enzo De Nicolo a darne notizia al Cer. Chiedendo, manco a dirlo, un'altra proroga. Proroga poi concessa da Roma: altri 272 giorni, fino al 31 dicembre 1992. Data importante per le palazzine dell'Italco. Perché quel giorno sarà finalmente rilasciata la concessione edilizia: l'ultimo atto amministrativo a conclusione del complicato iter di approvazione del piano abitativo dell'Italco. Non solo. Il giorno di Capodanno l'impresa darà anche comunicazione dell'inizio dei lavori. Con un tempismo davvero sorprendente. Un anno di silenzio Dopo il 31 dicembre 1992 non accade più nulla. Per un anno. “Nel 1993 – ricostruisce D'Ingeo – si ferma tutto: in compenso, però, riprende a pieno ritmo l'iter per la realizzazione delle piscine comunali in contrada Spina, sul suolo di proprietà di Calò”. Già, l'operazione-piscine. Dopo quella seduta di consiglio comunale dell'11 settembre 1990 che aveva visto Ventrella denunciare le “pre-vendite” dell'Italco, e, contemporaneamente, la maggioranza del consiglio deliberare l'indennità di tutto rispetto da attribuire a Calò in quanto proprietario del suolo destinato alle piscine, dopo quella data, solo il 26 febbraio del 1992 Calò si era dichiarato disponibile a cedere l'area. Che il 30 dicembre del 1993, con delibera di giunta, il Comune di Molfetta avrebbe poi definitivamente acquisito. Palazzine sulla lama, aumentano i costi per i residenti. Inizia l'odissea Intanto i lavori per la costruzione delle palazzine Italco proseguono. Con qualche “intoppo”. Nel corso dei lavori l'impresa scopre che l'area oggetto dell'intervento si trova sul fondo di una lama (come attesta una relazione geologica e geotecnica, commissionata dall'Italco e redatta nell'aprile del 1993 dal geologo Michele Mezzina). Per questa ragione, a detta del geologo, occorreva adottare metodi e accorgimenti di costruzione più sofisticati. E più costosi. “Fondazioni speciali tipo pali”, recita la relazione. Chi avrebbe pagato l'imprevisto ed ulteriore onere? I futuri residenti, naturalmente. Sì, perché la giunta comunale il 12 maggio del 1994 avrebbe accolto la richiesta dell'Italco di aumentare il costo degli appartamenti, prevedendo un incremento di poco più di 50mila lire al mq (966.204 lire al mq, piuttosto che 915.478 lire). E' il primo atto della retro-vicenda Italco. Che inizia lì dove finisce l'iter di approvazione di questo intervento edilizio. Ottenuti tutti i placet necessari a edificare il prolungamento di via Aldo Fontana, iniziati i lavori, entrano in gioco i futuri residenti. Non che prima non fossero stati presenti. Dietro le quinte, magari. Spinti dal bisogno di case. Ma a partire dal 1994 i condomini di via Aldo Fontana entrano in scena da veri protagonisti. Paganti, naturalmente. 50mila lire per ogni mq in più, tanto per cominciare. Fino a rimetterci il sogno di una vita. Una casa, oggi a rischio crollo. Ma questa è storia troppo nota per essere raccontata ancora. Tiziana Ragno
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