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Call center: tra precariato e stress, si preferisce fuggire
15 novembre 2009

Le aspettative iniziali sono tante, alla fi ne restano le delusioni per le condizioni di lavoro, le prospettive di carriera, lo stress continuo e la paga risicata. Per fortuna non è sempre così, occorre distinguere tra una situazione e l’altra. Spesso, infatti, ci sono casi di società serie, la cui reputazione viene messa a rischio da chi punta solo al profi tto e ha poco rispetto per le persone sia dipendenti che clienti. Ha solo l’obiettivo di fare business. Ecco perché occorre fare attenzione al momento in cui si fa una scelta di lavoro di questo tipo: informarsi prima di accettare l’incarico, sulla serietà della società e sulla sua affi dabilità e soprattutto sul trattamento dei dipendenti. Nasce da queste considerazioni la nostra inchiesta sui call center per capire questo fenomeno in crescita, ma che nasconde molte insidie per chi si avventura e che, comunque, è sempre simbolo di precariato, anche se in qualche caso le cose stanno cambiando e c’è chi off re contratti a tempo indeterminato e una discreta retribuzione. LO SCENAIO DEI CALL CENTER Lo scenario professionale dei call center doveva divenire un settore maturo e vivibile, ma gli ultimi due anni di riforme sono stati sprecati: nonostante siano più di 400mila i dipendenti, le condizioni di lavoro sono tutt’altro che buone. L’accordo fi rmato nel 2004 tra Asscallcenter e sindacati è fallito, perché gli operatori ancora hanno ancora un contratto a progetto. Intanto Assocalcenter è sparita. Insomma, una specie di spirale che si avvolge su se stessa: organizzazione del lavoro, salute, soddisfazione e prospettive ai minimi. Ad esempio, chi deve gestire le telefonate aff ronta ritmi stressanti, l’ossessione di dover chiudere le chiamate entro qualche minuto, senza nemmeno una pausa: i call center sono spesso realizzati senza tenere conto delle caratteristiche del lavoro svolto e la rumorosità, insieme alle condizioni climatiche, è tra le cause di maggior disagio dei lavoratori. Il 67% degli occupati ritiene di non avere opportunità esterne ed il 40% considera deludente la propria retribuzione (tra i 5 ed i 7 euro orari). Non si fa nessun investimento sulle persone, perché il lavoro è fortemente strutturato e non consente di acquisire nessuno skill aggiuntivo. Nei call center sono impiegati lavoratori con contratti di collaborazione, interinali, a progetto, part-time, temporanei, in funzione delle punte di lavoro, o dei periodi stagionali, o delle commesse a termine: la legge 30, con cui i contratti Co.co.co. divengono contratti a progetto, non sembra aver stabilizzato la condizione dei lavoratori. Il 35% degli impiegati si sente precario non per propria scelta, mentre il 12,5% si ritrova precario per volontà. Metà dei lavoratori ha più di quarant’anni ed il 77,2% degli addetti è formato da donne e sono proprio queste che hanno meno accesso alla stabilizzazione contrattuale. In Italia ci sono agenzie di telemarketing, call center aziendali in-house, grandi call center, che svolgono attività specializzate, e piccoli call center, ultima catena del “conto-terzismo”. La maggior parte degli incarichi attribuiti riguarda campagne di telemarketing e teleselling per la vendita di prodotti e servizi, sondaggi di opinione e ricerche di mercato, appuntamenti, previa breve intervista, per i consulenti commerciali ed assistenza. Le maggiori criticità si riscontrano al Sud per la presenza dei call center in outsourcing e per l’esternalizzazione: perciò, sono frequenti i casi di poca chiarezza tra intrecci proprietari, ambiguità di servizi e appalti pubblici. Per conoscere la realtà ed approfondire le problematiche dei call center, abbiamo intervistato le sig. ne C***, laureata in Lettere Classiche ed abilitata alla SISS, e S***, 28 anni, laureata in Economia e Commercio, che hanno lavorato per il call center AI**, nelle vicinanze del Magik Park, sulla litoranea Molfetta-Bisceglie. Abbiamo avuto anche modo di intervistare il sig. P***, laureato in Economia e Commercio, team leader presso il call center Ad**. Precariato, ritmi stressanti, cinismo e sensi di colpa per gli operatori: pensiero ricorrente? Fuggire. Per quali motivazioni hai accettato il lavoro come addetta al call center? «Dopo aver inviato numerosi curricula vitae, nonostante fossi laureata con il massimo dei voti, non sono stata mai contattata, eccetto che da AI**. Era un periodo in cui attendevo di essere chiamata per le prime supplenze ed, allo stesso tempo, lavoravo inuna pasticceria la domenica sera. Ho accettato quest’off erta per guadagnare qualcosa, benché consapevole di essere una precaria, di dover lavorare part-time e sottopormi a ritmi di lavoro estenuanti ». Raccontaci una giornata-tipo di lavoro. «Il mio turno era nella fascia oraria pomeridiana, dalle 17 alle 21, quando era più agevole trovare il consumatore al termine della giornata lavorativa, ma questo lavoro lo consideravo un’invadenza nella vita privata. Svolgevo teleselling, cercavo di vendere gli abbonamenti di AltoConsumo alle utenze contattate, una telefonata dopo l’altra, con un’unica pausa di dieci minuti. Inoltre, per alcuni giorni ho lavorato per la METRO di Roma, che pagava 25 centesimi ogni telefonata realizzata, e pubblicizzavo alcune off erte ai commercianti ed, anche in questo caso, le telefonate si susseguivano con un ritmo frenetico». Chi o cosa elaborava i numeri telefonici? «Era tutto computerizzato. Compariva una schermata in automatico, perché erano stati già individuati i consumatori che dovevano essere contatti ed, appena si concludeva una telefonata, subito sul computer compariva il numero successivo, automaticamente composto. Era necessario realizzare una telefonata all’incirca ogni 4 minuti e, in base al mio contratto, avrei dovuto raggiungere un volume di almeno 33 vendite mensili per non essere lienziata. Non era possibile temporeggiare, tutto era segnalato e registrato ed il supervisore controllava il nostro lavoro». Hai avuto una formazione specifi ca? «Ho partecipato ad alcune lezioni di psicologia della comunicazione, in cui ho acquisito uno schema comunicativo prefi ssato per convincere l’utenza ad accettare l’off erta. A seconda di quello che mi chiedevano o rispondevano, utilizzavo il programma del computer per poter sapere cosa rispondere o cosa chiedere, quasi dovessi indossare una maschera a seconda della situazione che mi si prospettava. Naturalmente, bisogna possedere una buona padronanza di linguaggio e credere in ciò che si pubblicizza. Ci raccomandavano di sorridere sempre mentre parlavamo perché, attraverso la cornetta, era possibile percepire tutto, dunque, era necessario porsi nel migliore stato d’animo». Non è stressante? «Certo, è molto stressante. Ero continuamente sotto pressione, in tensione psicologica per realizzare il quantitativo minimo di telefonate. Molte volte il supervisore mi ripeteva di aumentare i ritmi, di essere sotto lo standard di 5, 10 o 15 telefonate, nonostante fosse il contrario. Alla fi ne della giornata lavorativa ero esausta, soprattutto psicologicamente, come anche all’inizio del turno, perché sapere di dover entrare nella vita di una persona sconosciuta, di doverne turbare la quiete quotidiana è poco edifi cante. Accadeva soprattutto quando dovevamo convincere poveri pensionati ad accettare l’off erta del rivenditore o irrompere nelle case di quanti, di ritorno dal lavoro, tutto avrebbero voluto fare tranne che essere disturbati dalla nostra presenza. Mi sembrava spesso di essere cinica e violenta». Dunque, eri costretta a vendere per non essere licenziata e avere una dignitosa paga mensile. «Infatti, agli operatori non interessa la situazione economica o psicologica o culturale dell’interlocutore, hanno la necessità di vendere l’off erta pubblicitaria. Molte volte, mi sentivo in colpa quando sapevo di aver raggirato, illuso o truff ato l’interlocutore, nonostante quel contratto rappresentasse per me un incremento al fi sso mensile». Qual era lo stato d’animo con cui ti approcciavi al consumatore? «Spero di non disturbare. Ma nella maggior parte dei casi dovevo essere fredda ed indiff erente, dovevo annullare i sensi di colpa perché per noi operatori è necessario vendere». Parliamo del tuo fi sso mensile. «Era un fi sso molto basso, 135 euro, circa 5-6 euro all’ora, e al primo contratto giornaliero guadagnavo 1,50 euro aggiuntivi, al secondo 3 euro, al terzo 4 euro, al quarto 5 euro, dal quinto in poi 6 euro, una specie di cottimo. In un mese ho guadagnato circa 350 euro. Ricordo anche che una volta a settimana si svolgevano delle riunioni motivazionali pubbliche, in cui ognuno poteva visionare il proprio profi lo, ovvero sapere quante telefonate realizzava, quanti contratti sottoscriveva ed aveva modo di confrontarsi con se stesso e con gli altri. Insomma, un modo per invogliarci a lavorare di più e meglio». Con la legge 30 del 2004, i contratti Co.co.co., tipici per chi lavorava in un call center, dovevano divenire a progetto, per poi stabilizzare l’impiegato, per evitare la dannosa e continua fl essibilità lavorativa. Che tipo di contratto ti hanno fatto fi rmare? Hai mai conosciuto la tua condizione provvidenziale all’Inps? «Il mio contratto era del tipo ‘a progetto’ e mi era stato anche confermato che sarebbero stati versati i contributi all’Inps. Non mi sono mai preoccupata di controllare, avendo lavorato per un solo mese, ma credo che quei contributi non siano mai stati versati. Del resto, parlando con una mia amica che ha lavorato in un call center, ho avuto la conferma che i contributi all’Inps non sono stati mai versati, nonostante nel contratto fossero riconosciute le ritenute previdenziali». Come ti pagavano? «Con un bonifi co bancario, senza ritenuta di acconto». Era presente un sindacato in azienda? «Nessun sindacato». Quanti dipendenti eravate in azienda? Quale l’età media ed il titolo di studio? «Eravamo circa una ventina, tra signore sulla cinquantina, che lo facevano già da diverso tempo, 3 o 4 anni, persone sposate, anche distinte, oltre a molti giovani, tutti diplomati, alcuni laureati». Perché le cinquantenni impiegate in un call center? «Alcune vi lavorano perché non riescono a trovare lavoro, altre per arrotondare. Ad esempio, ho nitidissimo il ricordo di una signora, distinta nell’abbigliamento, che svolgeva questa mansione per potersi concedere questo tipo di lusso». Eri soddisfatta di questo lavoro? «Il grado di soddisfazione è pari a zero. Infatti, chi lavora in un call center considera questa attività un ripiego, nell’attesa di trovare qualcosa di meglio, ed il pensiero ricorrente è quello di dover fuggire, disertare, evadere». Che tipo di ambiente hai trovato? Parlavate tra colleghi della vostra condizione psico- economica? «A livello umano non posso dire di essermi trovata male, ma l’ambiente non è mai stato dei migliori. Non era molto favorito l’interscambio di opinioni e mancavano serenità e trasparenza. Non mi fi davo di nessuno e temevo di parlare, anche perché vigeva uno sporco clientelarismo, che certo non favoriva i rapporti ed accresceva il mio malessere. Ad esempio, avrei voluto conoscere il mio compenso all’inizio di questo lavoro, perché loro non ti off rono nessuna informazione, ma non sapevo di chi fi darmi e a chi parlare». Precariato, ma professionalità per il recupero crediti: mi accontento, ma desidero un lavoro migliore. «Appena laureata, ho inviato alcuni curricula vitae per cercare lavoro, ma dopo quindici giorni solo il call center AI** mi ha contattato, off rendomi la possibilità di lavorare come addetta al recupero crediti, da maggio a luglio di quest’anno, ed è probabile che a settembre mi rinnovino il contratto a progetto per altri 3 mesi. Questo tipo di mansione è parallela a quella dei call center, ma completamente diversa. Ognuno ha una sua postazione, ma su circa venti impiegati, solo 4 o 5 si occupano del recupero crediti, mentre tutti i restanti operano come addetti al call center, che contattano le persone e sponsorizzano i prodotti». Non è opportuno che il recupero crediti sia svolto da un laureato in giurisprudenza, piuttosto che in economia? «Certo, ma alla fi ne, avendo studiato anche diritto commerciale e privato all’università, eccetto le procedure processuali, ho comunque la cultura necessaria per svolgere questa attività. Del resto, questo è il primo lavoro svolto dalla maggior parte dei laureati in economia, perché le aziende cercano laureati con esperienza e l’esperienza si acquisisce passando anche da un call center». Hai, dunque, frequentato un corso formativo? «Ho seguito un corso di formazione di un mese, retribuito, prima di iniziare a lavorare e, rispetto agli impiegati al call center, gli addetti al recupero crediti conseguono una certa professionalità, che ha una sua importanza in un curriculum vitae da presentare in azienda. Avete delle formule prefi ssate di approccio al cliente? «Durante il corso di formazione, è stato possibile visionare degli schemi di comunicazione prefi ssati per approcciarsi al consumatore rispetto al suo atteggiamento, anche se grande importanza ha la capacità di ogni singolo di saper impostare una relazione comunicativa convincente, a volte anche dura, con chi si trova dall’altra parte della cornetta». In cosa consiste il tuo lavoro? «L’attività che svolgo è per conto di Sky che delega lo studio legale Gar*** di Roma di recuperare il credito degli abbonati, che a sua volta si serve delle società di recupero crediti per arrivare direttamente a quest’ultimi. Lavoro di pomeriggio, perché è più facile reperire le utenze al termine della giornata lavorativa e trovare disponibilità presso enti o aziende. Analizzo dal punto di vista contabile le fatture, cercando gli abbonamenti insoluti, contatto chi non ha versato la quota defi nita per contratto e, dopo aver spiegato la situazione, invito l’utenza al pagamento, prima di affi dare la pratica al legale. Si cerca sempre di andare in contro al cliente, eliminando, ad esempio, le spese legali e le ricevute di rientro o ripartendo le rate in più mesi, per facilitare il pagamento». Com’è impostato il tuo fi sso mensile? «Innanzitutto, chi lavora al recupero crediti non ha fi sso mensile, ma lavora a provvigione per 4 o 8 ore giornaliere, ovvero la paga si incrementa in modo proporzionale rispetto alle spese ed ai crediti recuperati. Ad esempio, di solito in un mese è necessario recuperare almeno 5mila euro, su cui ti spetta una percentuale, ma, contrattando con l’azienda, è stato possibile stabilire un fi sso mensile di circa 200 euro, soprattutto quando i crediti recuperati sono inferiori a questa soglia. Si tratta, dunque, di circa 600 euro mensili, quando hai ormai acquisito una certa esperienza». Sono pagati i contributi? «Normalmente pagati». Come avviene l’approccio con il cliente da parte delle aziende? «Ci sono varie modalità, ad esempio attraverso dei siti internet in cui l’utenza richiede la rivista, poi automaticamente richiamata, oppure si contatta uno stock di persone per promuovere e vendere l’off erta. Il pagamento si realizza, poi, attraverso bancomat, conto corrente bancario o bollettino postale. Nel momento in cui questo non avviene, subentra il settore del recupero crediti». Con che tipo di ambiente di sei confrontata? «Non posso negare la sua positività e la disponibilità degli addetti ai lavori, siano essi miei colleghi o supervisori o direttori di azienda. Del resto, abbiamo la possibilità di confrontarci sul lavoro svolto e su come migliorarlo, soprattutto con chi ha più esperienza, anche durante riunioni progettuali e motivazionali». Sei soddisfatta di questo lavoro? «Rispetto al call center, il grado di soddisfazione è maggiore, perché è un lavoro più solido, strutturato e poco fl essibile, anche se lo stress è lo stesso, perché convincere le persone a pagare la quota pattuita non è facile. Infatti, molte utenze accettano il contratto senza conoscerne i termini economici, le clausole, i tempi di rinnovo, sia per ignoranza personale che per disinformazione». Che cosa pensi di questo tuo lavoro? «Nel mio caso, permette di assumere una certa professionalità ed esperienza nel campo, richiesta dalle aziende ai neolaureati, anche se, appena troverò un lavoro migliore è stabile, fuggirò da questa realtà per le condizioni di lavoro e bassa remunerazione. Si cerca di accontentarsi! Per me, come per gli altri miei colleghi, tutti laureati in Economia e Commercio ed abbastanza giovani, si tratta di una fase di transizione che di solito può variare tra l’anno ed i due anni di lavoro». Coinvolgente e dinamico il ruolo di team leader, ma, per un lavoro migliore, sono pronto a lasciare tutto. Da quanto tempo lavori in Ad** ? «All’incirca 2 anni. In cosa consiste il tuo lavoro? «Mi occupo delle campagne inbound, curando gli aspetti qualitativi del servizio telefonico, e outbound, strutturando l’organizzazione dei servizi e il rapporto con il cliente». Che tipo di formazione hai avuto? «Il ruolo che ricopro implica una costante e scrupolosa formazione, che già 2 anni fa mi permise di calarmi completamente in questa nuova realtà. Devo ammettere, rispetto all’immaginario collettivo, che l’azienda ha investito ed investe molto sulla formazione delle proprie risorse umane. Infatti, ciò che mi ha sempre colpito è l’attenzione e il valore che si attribuisce alle persone, stimolate continuamente a produrre e a dare il massimo». Questo insistente stimolare non produce continuo stress? «Lo stress non manca, ma è un peso per i primi tempi, quando non sei abituato a ritmi rapidi e, a volte, frenetici. È facile lasciarsi coinvolgere da una realtà giovane e dinamica, piena di entusiasmo». Non si rischia di spersonalizzarsi? «Probabilmente questo accade per gli operatori call center, che sono le basi strutturali, quasi meccaniche, di tutto il sistema. È come una catena di montaggio, hai tempi calcolati e mai un momento di riposo, di attesa, di scambio di idee, devi eff ettuare almeno 250 contatti telefonici. Ad esempio, l’utilità e l’importanza del servizio che off riamo, la sua qualità, sono sottolineati da messaggi, affi ssi alle pareti o vicino i monitor, che invitano ad essere sorridente, gentile, disponibile, veloce. In alcuni casi, i dipendenti sono indotti a pensare di possedere realmente delle conoscenze specifi che superiori alla media, quando in realtà fanno azioni ripetitive e meccaniche. Naturalmente, bisogna vendere». Che tipo di persone svolgono questo lavoro? «Gli interinali sono giovani sulla trentina, molti studenti universitari o laureati ed alcuni hanno un altro lavoro». È presente un sindacato? «È presente, ma noi lavoratori siamo solo uno strumento politico. Il sostegno e l’informazione sono pari allo zero. Alcuni interinali mi raccontavano di uno spiacevole episodio accaduto qualche anno fa, quan-do l’azienda mancò di pagare uno stipendio: la protesta, molto debole e non sostenuta da organi esterni, non sortì alcun eff etto e ad oggi nessuno reclama i mancati pagamenti, consapevole che, prima o poi, sarà retribuito. Chi lavora in Interim, tra l’altro, ha l’aspettativa di poter essere assunto come dipendente e, inseguendo questa chimera, evita di protestare». Il ruolo che ricopri ti impone anche una rifl essione: il livello medio di soddisfazione dei clienti. «La soddisfazione di un cliente si misura con dati statistici: per le attività inbound i livelli di servizio, per le attività outbound il raggiungimento degli obiettivi. Tuttavia, è necessario prestare attenzione alla professionalità, alla disponibilità, alla serietà dei nostri operatori, che devono essere capaci di creare una sinergia simbiotica con l’interlocutore, che deve riceve cure e attenzioni particolari». Che tipo di contratto hai? «Il mio è un contratto a tempo determinato della durata di sei mesi e sono già alla quarta proroga. Infatti, il contratto, alla sua scadenza, mi è stato sempre rinnovato e, a quanto pare, le proroghe non possono andare oltre il numero di sei. La riassunzione avviene dopo un periodo di pausa di dieci o venti giorni, ma non è mai sicura: l’anno scorso, alcuni miei collaboratori non sono stati riassunti. Ho dieci ore di ferie al mese non cumulabili e dei permessi-studio quantifi cabili in tre giorni, il giorno dell’esame o della prova concorsuale, il giorno precedente e il successivo». Ti senti parte integrante dell’azienda? «Il ruolo che ricopro m’impone un’attenta supervisione per mantenere alti i livelli di servizio richiesti dal cliente, costante il lavoro di aggiornamento e formazione dei nostri operatori, con test periodici di verifi ca per riscontrare la qualità del servizio fornito ai clienti». È appagante il tuo lavoro? «Appena troverò un lavoro migliore, non avrò dubbi nel lasciarlo a qualcun altro. Purtroppo, per noi laureati è sempre più diffi cile trovare un lavoro e siamo costretti a ripiegare su queste occupazioni, facendo la fortuna di chi ci gestisce». Qual è il rapporto con i colleghi? «Al mio arrivo, ho trovato un clima eff ervescente, dinamico, energico, con un forte spirito di collaborazione, ma non carico di tensione per quanto le attività di un call center possono defi nirsi frenetiche tra obiettivi da raggiungere e standard di qualità da mantenere. Ciascuno rispetta l’impegno e il lavoro degli altri. A riprova di questo clima famigliare, con tanti colleghi si sono create relazioni che vanno ben oltre il semplice rapporto lavorativo».

Autore: Marcello la Forgia
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