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Call center. Il governo: schiavi a vita con nuove norme. Ed è sciopero Oggi protesta di 8 ore «contro la devastazione del mercato del lavoro» e le esternalizzazioni. Slc-Cgil: riaprire il tavolo negoziale. Decreto Sviluppo, articolo 24bis: fissato il precariato a vita
17 settembre 2012

MOLFETTA - Modificate le norme sui call center: il governo trasforma gli operatori in schiavizzati a vita. E oggi scatta lo sciopero per il rinnovo del contratto nazionale applicato a oltre 200mila addetti di cui oltre 80mila giovani impiegati nei call center concentrati principalmente nel Sud Italia. Questa la linea che animerà la protesta di 8 ore organizzato dal Sindacato Lavoratori della Comunicazione (SLC) della Cgil per domani «contro la devastazione del mercato del lavoro». Infatti, quasi 900 lavoratori saranno colpiti dal licenziamento, 2.200 sono già in cassa integrazione e circa 2.300 subiranno il trasferimento di ramo d'azienda.
«Le crisi già aperte in alcuni importanti call center quali Almaviva, Teleperformance, 4u ed alte società di TLC (telecomunicazioni, ndr) quali Ericsson, Sielte, Ceva Logistics mettono a repentaglio migliaia di posti di lavoro non a causa del crollo dei volumi di attività, ma unicamente per il cambio di appalti che si spostano da Regione a Regione, inseguendo incentivi statali o l'azzeramento delle retribuzioni dei dipendenti - ha dichiarato  Michele Azzola, segretario nazionale Slc Cgil -. Dopo l'interruzione delle trattative a seguito dell'indisponibilità di Asstel a negoziare le clausole sociali, i lavoratori del settore incroceranno le braccia per l'intera giornata con manifestazioni e presidi che si terranno in tutte le principali città italiane».
In effetti, tra le pieghe del Decreto Sviluppo è calata silenziosa una brutta sorpresa per gli operatori dei call center. Secondo l’art. 24bis, quasi passato inosservato e introdotto con un emendamento dalla Commissione Finanza, per le attività di vendita diretta di beni e di servizi realizzate attraverso call center «outbound» le imprese potranno far ricorso a co.co.co. senza dover prevedere un progetto, ma soltanto sulla base del corrispettivo definito dai CCNL. In pratica, per le attività di call center «outbound» (inglesismo di facciata per definire attività in cui è il lavoratore a effettuare chiamate a terzi) la legittimazione della collaborazione verterà «sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento», senza più individuare i progetti specifici.
È una condanna al precariato a vita senza appello. Tra l’altro, l’emendamento governativo rafforza maggiormente la figura giuridica dello “schiavizzato a vita” con un contratto a progetto e a rischio costante di licenziamento: come se (ma è la realtà) Governo e Parlamento avessero abbandonato gli operatori call center alle “esigenze aziendali”, per lo più finalizzate alla compressione del costo del lavoro per il profitto economico, lasciando che l’«outbound» assuma le forme del vecchio caporalato.
Ecco perché appare piuttosto discutibile l’inserimento di un “comma ad aziendam” in un decreto legge del tutto estraneo alla materia e, per altro, solo per una specifica categoria, come se un onorevole dalle “mani di fata” lo avesse innestato durante la discussione del provvedimento per la spendig review.
Il governo Monti e il suo parlamento hanno così scolpito pure sulle teste degli operatori call center una pesante lastra tombale. A Montecitorio un solo deputato ha espresso all’aula il suo voto di dissenso per questo colpo da macellaio. «Questa norma che consente di non stabilizzare i lavoratori dei call center è inaccettabile», la denuncia di Giacomo Portas, deputato indipendente nel Pd, imprenditore piemontese del settore dei call center che ha bandito i contratti di co.co.pro da oltre 12 anni, nella sua azienda.
Questi contratti a progetto appaiono come una vera e propria truffa elaborata dalla casta parlamentare italiana di cui questo mefistofelico governo è garante. Come si può parlare di contratto a progetto con attività spesso legate a orari di lavoro ben precisi, come per i subordinati?
Ormai la massa dei lavoratori che opera nel settore delle telecomunicazioni sta ingrossando il proletariato italiano. Un moderno proletariato che, però, vive in condizioni più svantaggiate del precedente (quello manifatturiero o industriale) ed ha un punto debole: la difficoltà di organizzarsi in forme collettive per rivendicare miglioramenti delle condizioni di lavoro, perché sparso nel territorio globale e precario.
Inoltre, le aziende di telecomunicazioni trasferiscono uffici da un capo all’altro del pianeta perché, lavorando nell’ambito dell’informazione, non devono spostare strutture complesse. Perciò, i sindacati di categoria ritengono indispensabile disciplinare all’interno del rinnovo contrattuale la materia degli appalti, offrendo continuità occupazionale a decine di migliaia di lavoratori che oggi rischiano di trovarsi disoccupati ad ogni cambio di commessa.
«Disciplinare questa materia rappresenta una norma di civiltà e di corretta competizione sul mercato. E’ inaccettabile che le aziende affrontino i problemi posti dalla crisi scaricando tutti i costi sui lavoratori attraverso gare di appalto ed esternalizzazioni basate sul principio del cottimo e che scatenano una competizione che premia le aziende che pagano di meno i lavoratori, sino ad arrivare all’utilizzo di lavoro nero e irregolare o a sfruttare unicamente gli incentivi statali e regionali - ha aggiunto Azzola -. Se è devastante perdere il lavoro a causa della crisi industriale è del tutto inaccettabile perderlo non perché il lavoro non c’è, ma perché viene spostato in un’altra Regione o in un altro Paese nell’ottica che meno certezze hanno i lavoratori più basso sarà il loro costo». 
Si discute sempre di crescita e di rilancio dei consumi, ma quanto può consumare un cittadino contribuente che guadagna 700 euro al mese privo di una prospettiva di stabilizzazione contrattuale o aumento del salario?
 
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Autore: Nicola Squeo
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