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La conquista regia - II parte
02 aprile 2006

Divisi sul piano politico tra moderati e democratici, tra centralisti e decentratori o federalisti, le élites politiche protagoniste del Risorgimento erano tutte concordemente liberiste in economia. Esse avviarono l'unificazione monetaria e doganale interna con l'introduzione della lira piemontese, l'abolizione delle dogane interne e l'allineamento di quelle estere sui livelli di quelle dell'ex Regno sabaudo. Nel 1863 fu firmato il trattato di libero scambio con la Francia. Di esso si avvantaggiò l'industria della seta piemontese e le esportazioni agricole di olio, vino, frutta e zolfo dal Mezzogiorno, mentre le sue industrie, protette durante il regime borbonico da alte tariffe doganali, entrarono in crisi. In campo economico-finanziario il problema che afflisse i primi governi unitari espressione della Destra moderata fu quello del debito pubblico. Quando nel 1861 furono unificati i debiti dei vecchi Stati il debito del Piemonte incise per oltre la metà sul totale e le spese erano destinate a salire con le guerre del 1866 e del 1870, il trasferimento della capitale a Firenze nel 1865 e a Roma nel 1870 e gli investimenti per le costruzioni stradali e ferroviarie. Necessitava una rigorosa politica finanziaria tanto sul piano delle uscite quanto su quello entrate. Quintino Sella (nella foto) ne fu l'interprete rigoroso. Sul piano delle entrate furono battute tre strade: i debiti, le imposte, l'alienazione delle proprietà demaniali. Le imposte gravarono prevalentemente sulla terra ed in mancanza di dati catastali attendibili le stime risentirono pesantemente del pregiudizio della ricchezza naturale del Mezzogiorno considerato un “giardino delle esperidi”. Infatti, nel 1864 Napoli e la Sicilia contribuirono per il 45% al gettito totale. Particolarmente impopolare fu la tassa sul macinato. Per il peso che l'agricoltura ricopriva nella formazione del suo prodotto interno e per il maggior peso dei consumi alimentari dei prodotti a base di frumento, fu il Sud d'Italia a soffrire maggiormente di un tale regime fiscale. E fu ancora sull'economia e sulla società del Mezzogiorno che la politica di alienazione delle terre demaniali ed ecclesiastiche vi incise più lungamente e profondamente. La vendita dei beni dell'antico demanio e di quelli confiscati alla Chiesa nell'intenzione dei legislatori avrebbero dovuto favorire la formazione di una piccola e media proprietà terriera, invece non fecero altro che rafforzare la grande proprietà fondiaria. Il basso prezzo medio delle vendite spingeva all'acquisto anche chi non era in grado di far fronte agli impegni, ma sperava di rimediarvi con la rendita della terra comprata. In realtà, a basso prezzo non si vendevano che le terre pi ingrate, mentre le migliori salivano spesso ad un prezzo anche doppio di quello di apertura. I disgraziati acquirenti delle terre peggiori, allettati dal basso prezzo, impossibilitati poi per il magro prodotto a fare fronte al pagamento delle rate, si vedevano ben presto sequestrata la terra, la quale veniva in seguito posto nuovamente all'incanto a prezzi ancora più bassi. […] solamente in parte la vendita all'incanto dei beni della Chiesa, suddivisi in piccoli e piccolissimi lotti, riuscì a contribuire alla diffusione della piccola proprietà e ad affrancare i contadini dalla oro posizione di dipendenza. Da un lato, al momento stesso della vendita, alcuni speculatori in possesso di larghe disponibilità di denaro poterono facilmente appropriarsi dei lotti migliori per poi rivenderli a prezzi più alti, o addirittura acquistare i vari lotti per ricostruire l'antico latifondo. D'altro lato si ripeté anche in questo caso la disgraziata vicenda di molti contadini o piccoli proprietari, che fecero sacrifici al di sopra delle loro forze per appagare la loro fame di terra e furono poi costretti rivendere le terre acquistate, o incorsero, addirittura, nel sequestro per insolvenza. Salvatore Lucchese
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