Un’operazione interessante, quella compiuta dalle edizioni Helicon, che hanno pubblicato il volume “Letteratura italiana contemporanea. Antologia del nuovo millennio”, a cura di Neuro Bonifazi, Andrea Pellegrini, Corrado Pestelli e Cristiana Vettori. L’opera s’interroga su quanto abbiano prodotto il Novecento e il primo scorcio del Duemila a livello letterario, antologizzando, accanto a scrittori consacrati dalla critica, oltre centotrenta voci di autori pubblicati da Helicon, spaziando nei domini della prosa, della poesia e della saggistica. Ne deriva un corpus variegato, con proposte interessanti e caratterizzate da uno stile personalissimo, accanto ad altre necessitanti di maturazione, perché troppo legate ai moduli tradizionali o alla mera estrinsecazione di un pur nobile sentire. Una prima sezione è costituita da saggi critici. Marino Biondi indaga le “Solitudini poetiche” e il rapporto tra “Campana e Firenze”, con precisi riferimenti alla vicenda editoriale dei versi del poeta di Marradi. Giancarlo Quiriconi ripercorre le tappe dell’Ermetismo, circoscrivendolo a livello cronologico e autoriale e scandagliandone la poetica, con costanti rinvii ai testi (si pensi a “Letteratura e vita” di Carlo Bo), alle riviste – tra le quali “Campo di Marte” – e alle figure chiave dell’indirizzo. Molto interessante il breve saggio di Silvio Ramat, “Linee di massima per la poesia del Novecento italiano”, in cui si affaccia la spinosa problematica della creazione di un canone poetico del “Secolo breve”. Ramat sonda i cambiamenti sorti nelle scelte delle storie letterarie, muovendo per esempio dalla considerazione dell’esclusione dal “canone” di un recente manuale scolastico, curato da Langella, di un’auctoritas quale Giosue Carducci, per introdurre l’autore dei “Colloqui”, Guido Gozzano, ch’emerge per il “malizioso e ammaliante giocare a rimpiattino coi classici (Dante Petrarca Leopardi)”. Dopo aver ripercorso il Novecento (anche con attenzione all’elemento “generazionale”, caro al Macrì) e averne esaminato con pochi, ma sicuri, tratti le figure principali, lo studioso azzarda una sua proposta, in una tripartizione cronologica del secondo e del terzo Novecento, con una prima “corona”, costituita da Caproni, Luzi e un nome a scelta tra Betocchi, Gatto e Sereni; una seconda, composta da alcune opere di Zanzotto e Raboni e da Giovanni Giudici; una terza, in cui trovano posto la Spaziani, Bandini e Loi. Michele Rossi elabora successivamente una sezione antologica delle grandi voci del Novecento, corredata da note biobibliografiche. Da Nanni Balestrini ad Andrea Zanzotto, il curatore opera una sua scelta, che, per determinate figure autoriali, ci appare condivisibile (si pensi a Giorgio Caproni, di cui liriche di intensità struggente appartengono, per esempio, a “Il seme del piangere”). Seguono gli scritti di “voci ed espressioni letterarie del nuovo millennio”, ripartiti in quattro sezioni. La prima desume il titolo di “Familiares” dall’epistolario ciceroniano e petrarchesco; improntata agli affetti del microcosmo domestico, conosce le sue punte più interessanti nelle prose d’ambientazione sarda, dense di superstizione e fascino, di Iolanda Fonnesu e nel breve, ma intenso, dialogo tra madre e figlio, ambientato all’epoca delle persecuzioni nazionalsocialiste, risolto con delicatezza da Alessandro Izzi. La sezione degli “Amori” vira sull’esplicitazione di vissuti individuali o su una più universale meditazione relativa alla cosmica potenza del sentimento amoroso. Qui si collocano i versi maliosi del libanese Hafez Haidar, ma anche i pregevoli scritti di Rita Iacomino e Micaela Quondamatteo. “De rerum natura” raccoglie espressioni legate alla contemplazione del mondo naturale o alla meditazione sui cicli vitali: segnaliamo, tra gli altri, Lorenzo Cimino, Gianfranco Forghieri, Dario Marelli e Rita Montanari. In “Verso un mondo nuovo” prevalgono l’impegno civile e la tensione sociale; tra gli autori, la tarantina Myriam Pierri, Antonio Rossi, Gianni Terminiello e Petra Trivilino. L’ultima sezione raccoglie “Pensieri e poesie” di scrittori, fra i quali ci piace menzionare Matteo Bianchi, Ettore Cappelletti, Mariangela De Togni, Maria Grazia Duval e Mario Massa. Senz’altro più ricca e brulicante di voci (Saverio Gaggioli, Milvia Lauro, Natino Lucente, Orietta P. Notari, Edio F. Schiavone, Isabella Sordi, tra i tanti) è l’antologica “Tempus fugit”, incentrata su quello che Ungaretti definiva il “Sentimento del tempo”. Proprio in questa sezione ci sia lecito soffermarci su due autori in particolare, i molfettesi Giovanni Salvemini e Marco Ignazio de Santis. Il primo, laureato in Economia e Commercio, docente in pensione, appare animato da un’intenzione neoromantica, che si traduce in un’impressionistica contemplazione della natura, cui il poeta fa seguire la registrazione delle risonanze interiori derivate da tale osservazione. Non manca una certa predilezione per le sensazioni indefinite, le voci lontananti e i cromatismi sfumati. Il secondo, apprezzato collaboratore di “Quindici” e redattore della “Vallisa”, è demologo, narratore e poeta insignito di importanti riconoscimenti, tra i quali il “Premio Renata Canepa” per le “Lettere dagli argonauti” e il “Premio speciale della critica ‘Thesaurus’” per “Vaghe stelle dell’orsa e altri racconti”. Alcune delle poesie antologizzate sono tratte dalla recente silloge “Dal santuario”, edita nel 2013 per i tipi di Helicon e prefazionata da Neuro Bonifazi. Le poesie di de Santis sono caratterizzate da una notevole doctrina e da un linguaggio selezionato e alto. La memoria dei classici è viva nei versi del poeta, che muove dal Tibullo in esergo per rievocare un’elegia riveniente dall’infanzia, che si tinge dei colori di una “lacca di garanza rosa”. Lo scorrere edace del tempo oblitera l’esistenza umana, ma il “vespero”, accanto al “mammifero alato / infamato dagli incolti”, ridesterà la memoria dei “trapassati”, in un ciclico approsimarsi, fondersi e confondersi di vita e morte. Solo l’amicizia e gli affetti sopravvivono alla tempesta ed ecco farsi strada i sodali poeti: Ada de Iudicibus, con le sue “vertigini d’estasi” e le sue aeree corone di versi, e i lavallisiani, con i quali de Santis condivide l’infaticabile impegno intellettuale di divulgazione del “contagio poetico”. Per i novelli argonauti lo scrittore auspica un’estrema forma di persistenza... “Questo forse resterà di noi: / una scintilla di bellezza / sprizzata per incanto / dall’acciarino dei versi”.
Autore: Gianni Antonio Palumbo