Non è facile parlare di Gianni. Costa fatica, perché perdere un amico è devastante. Perdere quell’amico, poi, un amico che guardava la città con vigore, con autorità, che aveva degli obiettivi, delle idee innovative, lo è ancora di più. Quando Annalisa Altomare ricorda a Quindici per la prima volta in questi 20 anni (mai aveva rilasciato un’intervista sulla vicenda) la sua esperienza politica con il sindaco di Molfetta Giovanni Carnicella (lei era capogruppo della Democrazia Cristiana, nominata poi sindaco di Molfetta dopo l’omicidio del 7 luglio 1992) traspare l’orgoglio di aver condiviso con lui tanti anni di impegno politico. «È faticoso raccontare perché chi fa politica condivide tutto: il tempo, gli impegni familiari, il cibo, il sudore». Dottoressa Altomare, in un recente dibattito pubblico ha affermato che Gianni Carnicella non è stato una vittima, ma un martire della democrazia. Cosa significa? «Carnicella non era un uomo abituato a piangersi addosso. Si sentiva isolato quando doveva prendere decisioni forti, ma perché all’epoca, più o meno come accade oggi, il tessuto sociale della città stava degradando velocemente e vorticosamente e lui doveva contrastare quella situazione come sindaco della città, cioè come responsabile unico delle decisioni politico- amministrative. Non è stato una vittima, perché si confrontava con le questioni e con gli uomini a viso aperto. È stato martire, perché non era un debole, aveva degli obiettivi e dei principi, era guidato da un’idea di città innovativa e riformatrice e voleva realizzarla pur conoscendone le difficoltà. È stato un sindaco autorevole. Essere sindaco di Molfetta era per lui un orgoglio e un onore. È stato un martire, perché la vittima sta distesa, ma il martire sta in piedi. Chi riceve dai cittadini incarichi istituzionali deve sentirsi autorizzato a operare nel rispetto delle regole e senza guardare in faccia a nessuno. Potersi occupare del bene della città dev’essere la più alta delle gratificazioni. Don Tonino nell’orazione funebre ha definito l’assassino di Gianni non un “mostro”, bensì un “nostro”. Secondo me, intendeva dire che è sbagliato negare le responsabilità che l’intera collettività ebbe in quell’evento. C’è, ancora oggi, una tendenza alla deresponsabilizzazione della cittadinanza molfettese. Bisogna, invece, che tutti si facciano carico di un reale percorso di legalità e democrazia, che recuperino il valore e il rispetto delle istituzioni». Che ricordi ha di quel giorno? «Io ero capogruppo della Dc in Consiglio comunale. Stavo trascorrendo la mattinata a Bari quando mio figlio raccolse una telefonata di Gianni, in cui chiedeva di incontrarmi in Municipio alle 15 per discutere di alcune questioni, in particolare del carnevale molfettese che Carnicella voleva trasformare in un evento nazionale, coinvolgendo gruppi mascherati e artigiani specializzati nei lavori di cartapesta di piccolo taglio. Alle 14,35 mi chiamò un’amica: “Anna, hanno sparato a Gianni! Metti su Retesette”. Accesi il televisore e lessi la scritta su fondo nero sulla tv locale: “Hanno sparato al sindaco Giovanni Carnicella”. Immediatamente scesi in strada, fermai l’automobile del primo passante e, spiegatogli l’accaduto, lo pregai di accompagnarmi subito all’ospedale. Lo fece e io lo ringrazio ancora per quel gesto. Quando raggiunsi la zona filtro della sala operatoria mi dissero che Gianni aveva già avuto degli arresti e i chirurghi si apprestavano ad operarlo. Molte persone erano accorse a donare sangue. Intanto, nella stanza del direttore sanitario erano presenti il vescovo, don Tonino Bello, che parlava con il padre del sindaco, Vincenzo. La radiografia che mi mostrarono era terribile: il torace di Gianni era costellato di proiettili, disposti sulla carne come un fuoco d’artificio già esploso. La giornata terminò con noi, i suoi amici, che ci consolavamo a vicenda sugli scalini dell’ospedale, in mezzo al viavai della gente, sperando che Gianni sopravvivesse. Intanto, in qualche parte della città risuonavano le canzoni. Qualcuno festeggiava. L’indomani la pioggia lavò via le ultime macchie di sangue rimaste sugli scalini dove Gianni fu colpito. Non so se fu il cielo a piangerlo, ma so che Molfetta non lo ha mai pianto abbastanza. Da allora non ce ne siamo mai andati di lì, siamo rimasti al 7 luglio di venti anni fa. Troppo poco si è riflettuto sul significato di quell’evento, sul fatto che non eravamo stati attenti a certi fenomeni, a certi luoghi dominati dalla microcriminalità». È possibile che il permesso negato a un concerto possa essere stato la causa di un simile delitto? Quale fu, in realtà, la vera logica che portò all’omicidio del sindaco Carnicella? «La logica fu quella di voler colpire il più alto rappresentante delle istituzioni locali, con l’obiettivo di calpestare la legge e il rispetto del vivere comune. L’omicidio fu un gesto che concentrò la reazione d’interessi criminali verso l’unica parte visibile del governo, dell’autorità costituita. La risposta della classe politica non fu all’altezza di quell’evento. Essa non riuscì o non volle elaborare un discorso di riflessione collettiva. Non emendò se stessa. È per questo che forse la sentenza giudiziaria non è riuscita a raccontare tutta quanta la verità. La settimana successiva all’assassinio, furono organizzate alcune iniziative. Il 14 luglio la Dc dispose un dibattito sull’ordine pubblico e sul controllo del territorio, ma da quel giorno alcuni esponenti politici hanno attribuito la responsabilità dell’accaduto a chi avevano proposto Carnicella come candidato sindaco. Li accusavano di aver contribuito al problema della criminalità dilagante. Si vollero tacere le responsabilità collettive che avevano condotto Molfetta a subire un attentato così grave proprio quando, al contrario, si sarebbe dovuto meditare seriamente sulla indifferenza e sulla scarsa indignazione che avevano prodotto, anzi autorizzato quella deriva. Il risultato paradossale fu credere di aver trovato nelle decisioni di alcuni politici le ragioni di quel crimine, giustificando di fatto i veri responsabili e assolvendoli di fronte alla comunità». Qual fu il ruolo della Dc di Molfetta nel percorso politico di Carnicella? «Il passaggio storico in cui si svolse il breve mandato di Carnicella fu quello, cruciale, della modifica dello Statuto comunale, nonché di cambiamenti importanti dal punto di vista normativo, istituzionale e politico anche su scala nazionale. Tutti eravamo consapevoli che nel 1994 avremmo votato per la prima volta il sindaco con elezione diretta, e che dunque il sistema proporzionale in Consiglio comunale sarebbe stato superato. Erano gli anni successivi alla caduta del muro di Berlino, quando i partiti e le istituzioni del Paese facevano i conti con un contraccolpo politico e ideologico enorme. Per un uomo come Gianni Carnicella, dotato di una statura politica e di un’intelligenza istituzionale non comuni, fu semplice cogliere lo spirito dei tempi nuovi, capire che i cittadini avevano assoluto bisogno di una nuova politica riformatrice, pronta ad affrontare i cambiamenti economici e sociali in atto. E il partito lo appoggiò, scelse lui come candidato sindaco proprio per questo. Come assessore ai Servizi Sociali, Carnicella aveva già dimostrato la propria maturità politica: con lui fu istituito il primo centro anziani della città e il primo centro di assistenza per portatori di handicap, nacquero il Teatrermitage e si svilupparono le attività estive per ragazzi. Ancora prima, da assessore agli Appalti e Contratti, contribuì all’aggiornamento delle procedure di assegnazione e dei regolamenti interni dell’amministrazione». Benché in Consiglio si votasse compatti, non mancavano però le divisioni interne. «Certo, in un Consiglio comunale in cui 16 consiglieri su 40 erano della Democrazia Cristiana era naturale che qualcuno esprimesse idee e posizioni divergenti rispetto a quelle della maggioranza. Nelle settimane precedenti all’omicidio, nelle riunioni di partito emersero spesso contrasti accesi che riproponevano la divisione interna fra la minoranza che aveva proposto come candidato sindaco Domenico Corrieri (attuale dirigente del Settore Affari Generali, ndr) e la maggioranza favorevole a Carnicella. Erano le settimane in cui si decidevano il nuovo Piano regolatore e il Piano di commercio della città. E anche i giorni in cui sorsero dei problemi con l’assessorato ai Servizi sociali in merito alla situazione igienico-sanitaria di Piazza Paradiso». Chi era l’assessore ai Servizi sociali? «Rocco Altomare (ex dirigente del Settore Territorio, arrestato lo scorso 23 giugno 2011 nell’operazione “Mani sulla città” e poi scarcerato a dicembre 2011 per decorrenza dei termini di custodia cautelare, ndr) che prese il posto di Carnicella dopo la sua elezione a sindaco. Insomma, ciascuna di quelle problematiche amministrative andava senz’altro ad intaccare interessi diffusi e di non poco conto, e ciò veniva rispecchiato nelle posizioni interne al partito. Ma per Gianni e per la maggioranza che era in accordo con lui, quelle erano le cose giuste da fare. Il motto era: “la città si aspetta questo da noi, vuole che facciamo qualcosa di diverso”». E dopo l’assassinio? «Dispersione totale. C’era addirittura chi, sopraffatto senza rimedio dall’evento, pensava di poter tornare alle elezioni già a novembre. Per fortuna fu mantenuta la continuità istituzionale e si evitò il rischio di un’ulteriore degenerazione del tessuto politico e sociale della città, che avrebbe portato a chissà quali esiti. Ma è come se un dopo non ci sia mai stato. Ripeto, siamo rimasti lì, a vent’anni fa. La parte emergente e nuova della politica cittadina si è tacitata quel giorno e sotto quei proiettili. Finora siamo riusciti soltanto a fare un esercizio intimistico, senza avere ancora mai riflettuto pienamente sul significato dell’attentato a Gianni». Da questo punto di vista, non le pare una beffa che due consiglieri di minoranza che votarono a favore della sua elezione a sindaco dopo che Carnicella fu ammazzato, cioè l’attuale sindaco Antonio Azzollini e l’ex consigliere Giusi De Bari, oggi dirigente del Settore Economico- Finanziario, entrambi esponenti del Partito Comunista, prendano oggi provvedimenti apertamente contrari, come testimoniano le troppe vicende giudiziarie degli ultimi anni, ai princìpi di legalità e responsabilità civica? «Non lo trovo assolutamente beffardo. Cambiare idea è legittimo, ci mancherebbe. La storia di ciascuno non può essere appiattita sulle scelte politiche o amministrative che compie. Se seguiamo con attenzione i percorsi che ciascuno di noi ha fatto in questi vent’anni, si vedrà che ognuno è oggi la naturale evoluzione di ciò che era all’epoca. Tutti portano in ciò che fanno la loro storia personale e la loro cultura, e restano unici responsabili delle proprie scelte, giuste o sbagliate che siano. Tuttavia ammettere di aver commesso un errore fa crescere, è segno di maturità. Spesso si pretende di voler vivere la vita degli altri, ma è già pesante vivere la propria». Lei dice che una certa idea di politica a Molfetta si è fermata a quel 7 luglio di venti anni fa. Nel frattempo la città si è anch’essa fermata lì? Da allora è peggiorata? «Ma Molfetta è migliore rispetto al luglio del ’92. Non è una città tanto disgregata quanto lo era all’epoca. Generalizzare in questo modo significa cadere nella negazione della realtà. Molfetta è piena di energie positive straordinarie e sono i giovani la sua forza. I giovani di oggi sono migliori rispetto a quelli della generazione passata perché hanno meno certezze e si trovano a dover crescere in un contesto ben più difficile rispetto a quello che noi abbiamo vissuto. Sono più istruiti, più volenterosi, molto meno ingenui di noi, sotto certi aspetti». Oggi molti rivendicano presunte eredità di Carnicella, altri parlano di legalità a suo nome e lanciano accuse a destra e a manca, magari impugnando la sua bandiera per il proprio tornaconto personale o per strumentalizzazioni politiche. Lei che dice? «Non mi spiego come possano testimoniare Carnicella se non hanno conosciuto la sua attività amministrativa e politica. Dovrebbero avere l’onestà intellettuale e culturale per ammetterlo, per riconoscere che raccontano una persona solo in base agli atti processuali, che sono solo una piccola particolarità». Anche per questo motivo, non sarebbe tempo di raccontare ai chi ancora non c’era o non sa, chi è stato davvero Giovanni Carnicella e le ragioni del suo martirio? «Come ho già detto, è faticoso farlo, per noi che eravamo suoi compagni di vita. Per raccontare di Gianni bisogna fare ammenda dell’emotività, evitare fughe intimistiche e cominciare a raccontare, a farne la storia senza assumere interpretazioni di comodo, che sono intellettualmente posizioni di correità. Per fare la storia di Gianni Carnicella occorre capire e ammettere che si sono commessi degli errori.