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6 novembre: San Leonardo di Noblac Tra storia e tradizione popolare
15 ottobre 2004

L'agiografia di questo Santo eremita, scritta su internet da Antonio Borrelli, ci rivela un uomo semplice ma preso da grande fervore di carità. Nacque in Gallia, ai tempi dell'imperatore Anastasio I. I suoi genitori erano amici di re Clodoveo, il quale volle fargli da padrino nel battesimo. Seguendo l'uso degli antichi nobili franchi, da giovane rifiutò di arruolarsi nell'esercito, mettendosi al seguito di S. Remigio, arcivescovo di Reims, che aveva convertito e battezzato lo stesso Clodoveo. La sua fama di santità si faceva sentire in tutta la Francia e nella vita di questo Santo è rimasto emblematico un episodio accaduto nella foresta di Pavum, nei pressi di Limoges. Lì dovette soccorrere la regina Clotilde che con il re Clodoveo si trovavano per una battuta di caccia. La donna fu sorpresa dalle doglie del parto e Leonardo, con le sue preghiere, le permise di dare alla luce un bel bambino, senza dolori. Clodoveo, in segno di gratitudine, gli concesse una parte del bosco per edificarvi un monastero. Il Santo costruì un oratorio dedicato alla Madonna, un altare in onore di S. Remigio e un pozzo che miracolosamente si riempì d'acqua. Quel luogo lo chiamò “Nobiliacum”, in ricordo della donazione di re Clodoveo, re nobilissimo. Ma la santità di Leonardo si manifestò soprattutto nella liberazione di tanti prigionieri vittime delle guerre barbare di quei tempi. Costoro, dovunque lo invocassero, vedevano le catene spezzarsi, i lucchetti aprirsi, le porte spalancarsi, i carcerieri distrarsi e tutti riacquistavano la libertà. Fu particolarmente venerato all'epoca delle crociate e tra i suoi devoti va annoverato il principe Boemondo d'Altavilla (figlio di Roberto il Guiscardo) che, fatto prigioniero dagli infedeli durante la prima crociata del 1100, venne liberato nel 1103, attribuendo la sua liberazione al Santo che aveva invocato. Quando tornò in Europa, volle dare come voto al santuario di Saint Léonard de Noblac delle catene d'argento simili a quelle che lo tenevano legato. Morì il 6 novembre 545 ca. Il suo nome fu inserito nei toponomastici e nel folklore popolare. Molfetta è legata alla ricorrenza di questo Santo per una vetusta tradizione, ormai scomparsa, e per uno storico evento doloroso. In tale giorno, infatti, i molfettesi si recavano al Pulo per trascorrere una giornata all'insegna della spensieratezza e gustare i tradizionali calzàuene de Sén Lénérde cioè pasta dolce a forma di panzerottini, ripeni di marmellata di fichi secchi, cioccolata, mandorle tritate, vin cotto, zucchero. Quest'antica “scampagnata” è descritta da Antonio Salvemini nel suo libro “Saggio storico della città di Molfetta”, Napoli 1878: “V'era finalmente la festa di S. Leonardo che solennizzatasi con molta pompa ai 6 di novembre al Pulo. Ivi esisteva la chiesa dedicata al detto santo col Convento dei Padri Cappuccini fondato dal nostro concittadino Beato Giacomo Paniscotti sin dal XV secolo. Per la gran devozione al santo vi concorreva sin dalle prime ore del mattino molto popolo al divin sacrificio. A causa della lontananza dell'abitato solea ciascuno portar seco le vivande già preparate, e tra le altre cose facevano le focacce ripiene di fichi secchi e di mandorle abrostolite, tritate e impastate con vin cotto ed altri aromi per fare la merenda ad ora tarda. Erano queste focacce dette volgarmente Calcioni di S.Leonardo. Concorrevano pure molte gentildonne, che dimoravano tuttora nelle loro ville, a prender parte a quella festa di campagna per devozione del santo, e seco portavano manicaretti ed altre squisite vivande, non esclusi i detti Calcioni di S.Leonardo”. Purtroppo, la ricorrenza di San Leonardo è anche legata ad un tragico evento che colpì la nostra città nel lontano 1943. Nella palestra dell'edificio “C. Battisti”, già requisito dalle truppe alleate, si svolgeva una serata danzante (era di sabato). Alle ore 20 precise, il silenzio della città venne paurosamente rotto dal rombo di un aereo tedesco che, tornando probabilmente da una missione, dovette essere attratto dai fari che illuminavano la palestra dell'edificio in cui si svolgeva la festa. Scambiando il sito per una caserma, l'aereo sganciò una bomba che cadde accidentalmente sull'isolato n.17 di via Cap. De Gennaro, a pochi metri dall'edificio scolastico cui era presumibilmente diretta. La bomba fece crollare l'interno del fabbricato cui seguirono grida di strazio e di disperazione. Il bilancio fu di cinque morti, di cui quattro appartenenti ad una famiglia che abitava a piano terra dello stabile: Palumbo Margherita (anni 25), Amato Angela (anni 6); Amato Francesco (anni 4); Amato Nicolò (anni 1). Il capo famiglia (coniuge di Palumbo Margherita) fu risparmiato dalla tragedia, essendosi recato dal barbiere. La quinta vittima, Caputo Cosmo (anni 35), abitava in un appartamento al secondo piano superiore. Lasciò un figlio e la moglie in attesa del secondo figlio, scampati alla morte perché in quel momento erano fuori casa, in visita presso la suocera. Il mattino seguente, mentre si disseppellivano le salme, una fila di carabinieri teneva a distanza la gente, che guardava con compassione e andava via. Solo un uomo rimase seduto per terra, con la testa fra le mani, fino a quando l'opera di ricognizione delle salme fosse terminata. Era lo scampato che aveva avuto il terribile privilegio di sopravvivere e di rimanere solo. Concludo con un pensiero dell'indimenticabile don Tonino Bello: “E proprio perché la memoria delle iniquità del passato ci preservi da analoghe violenze nel futuro, ti imploriamo, o Signore, di non farci venir meno la speranza di conversione dell'industria bellica in impianti civili, produttori di beni atti a migliorare la qualità della vita.: amicizia e dialogo, tenerezza e stupore, bisogno profondo di felicità, poesia e umiltà…Sono queste le armi della pace, senza di che la pace delle armi, nel migliore dei casi sarà solo la pace dei cimiteri”. Cosmo Tridente
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