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MAREMOTO – ESCLUSIVO. Una mamma racconta: le mie lunghe ore di attesa tra angoscia e speranza
Nell'elenco dei dispersi in Thailandia anche la figlia di una signora molfettese
15 gennaio 2005
Nell'elenco dei dispersi c'erano anche loro: Fiorella Natalicchio molfettese, suo marito il francese Serge Mainguy e il loro figlioletto Maeldane (nella foto). Per giorni si sono ripetute le telefonate fra la famiglia in ansia a Molfetta e la Farnesina, che a sua volta chiamava ripetutamente per chiedere se fossero arrivate notizie dagli “scomparsi”. Ore di angoscia, giornate intere a piangere per una figlia e la sua famiglia dichiarate disperse per 10 giorni: così la mamma, la signora Emilia Poli – come ha raccontato in esclusiva a “Quindici” - ha trascorso i giorni tra Natale e l'Epifania, senza uscire di casa, al punto che, non vedendola in giro, in città si era diffusa la voce che fosse anche lei scomparsa in sud est asiatico per il maremoto. Poi, una telefonata, il 5 gennaio. La signora Emilia non ha la forza di rispondere, teme la conferma di un triste presagio. È Tiziana, sorella maggiore di Fiorella, ad alzare il ricevitore: «Ciao Tiziana, sono Fiorella, come state?» «Fiorella? Sei tu? Proprio tu?» «Certo, perché che è successo?» e giù lacrime liberatorie. Emilia e Tiziana che si abbracciano e l'incredula Fiorella dall'altro capo del filo e del mondo, che ancora non riesce a comprendere. Alla fine tutto si chiarisce: «Mamma perdonami, se non ti ho chiamato prima, ma non sapevo tutto quello che è successo». In realtà, Fiorella non sapeva nulla della tragedia del maremoto, semplicemente perché non era in Thailandia, bensì in Birmania, su una montagna, lontana dalla tv e dal mondo, in un villaggio di indigeni e non poteva conoscere il dramma che si stava compiendo a una manciata di chilometri, che in quei posti diventano diverse migliaia. Fiorella, Serge e Maeldane erano rientrati di notte a Giacarta, in Indonesia, dove vivono (lui insegna in una scuola francese) e non avevano potuto vedere lo scempio compiuto dalla forza del mare «rabbioso» in quel paradiso che loro conoscono bene. La scelta di trascorrere le vacanze natalizie in villaggi indigeni, com'è abitudine della famiglia Mainguy, li aveva «privati» della tv e di ogni collegamento col mondo esterno. Così si è conclusa felicemente una vicenda che ha tenuto col fiato sospeso non solo la famiglia, ma anche molti cittadini che li conoscono, gli amici che da tutt'Italia hanno telefonato e lanciato appelli in internet per chiedere notizie. «Tutto è cominciato appena il ministero degli esteri italiano con molta discrezione, ci ha comunicato la terribile notizia che loro tre erano nell'elenco fra i dispersi - racconta a “Quindici” la signora Emilia -. Da quel momento il telefono è diventato l'oggetto delle nostre paure e, allo stesso tempo, delle nostre speranze. Sobbalzavo ad ogni squillo, ma non ho mai perso la speranza di rivedere mia figlia e la sua famiglia. Per fortuna loro non hanno vissuto nulla di questo dramma, che si è sviluppato tutto in questa casa: telefonate alle ambasciate di Birmania, Indonesia, Italia e Francia. Notizie contraddittorie che si accavallavano, come quella proveniente dal Brasile che segnalava lì la loro presenza o quell'altra che li indicava tra i feriti. Inoltre la stessa ambasciata Birmana escludeva la presenza della famiglia Mainguy in quel Paese, perché non risultava un loro passaggio per mettere il visto. Solo un'e-mail inviata ad un'amica, ci aveva fatto sapere che erano tra la Birmania e la Thailandia. Potete immaginare il nostro stato d'animo: tv sempre accesa con gli occhi infilati nello schermo alla ricerca del voto amato, perfino tra le immagini dei morti e le foto dei dispersi che giornali e media diffondevano in continuazione. Ci hanno chiamato perfino da “Porta a Porta” per avere notizie di questa famiglia residente a Giacarta e dispersa in Thailandia. Abbiamo anche avuto la falsa notizia della loro partenza con un volo di soccorso che ha fatto scalo a Bangkok, notizia purtroppo smentita qualche ora dopo dalla stessa Farnesina. Eravamo con l'animo sospeso e straziato allo stesso tempo: è stata quasi un'agonia – confessa la signora Emilia al cronista di “Quindici” -. A rendere ancora più drammatica la situazione era la mancanza di notizie di loro da Natale: in un primo momento avevamo pensato a una difficoltà di collegamenti (come in realtà è stato, ndr) poi, col passare dei giorni, ci siamo preoccupati perché il 6 gennaio si riaprivano le scuole mentre loro fino al 5 sembravano svaniti nel nulla.
Poi abbiamo saputo che erano scesi nella capitale con l'intenzione di farci gli auguri di Capodanno per telefono, ma non erano riusciti a prendere la linea e, dopo vari tentativi (anche via mail o sms), avevano rinunciato, riproponendosi di spiegare tutto dopo e scusarsi al ritorno». A tutto ciò si è aggiunta la decisione – secondo la signora Emilia – delle autorità birmane di non far trapelare nulla per evitare un possibile panico, che avrebbe reso più difficili le operazioni di soccorso. Anche quando “i ragazzi”, come li chiama affettuosamente la mamma, sono tornati in albergo per avviarsi al rientro a casa, non hanno saputo nulla: solo che c'erano stati «alcuni problemi». Ma c'è anche uno strano episodio in questa storia. Lasciamolo raccontare alla stessa signora Emilia: «Quest'anno Fiorella e suo marito avevano inviato a tutti gli amici una strana fotografia (che riproduciamo in questa pagina, ndr) per gli auguri di Natale. Non l'avevamo mai fatto. L'immagine, realizzata al computer, era divisa in tre parti: al centro Fiorella, Serge e Maeldane, alle due estremità le stesse foto spezzettate, scomposte. In quei giorni angosciosi l'ho rigirata ripetutamente fra le mani. Avevo l'impressione che fosse un presagio: non sono più vivi – mi dicevo – e con questa foto hanno voluto salutare tutti. Poi la mia nipotina di 6 anni il giorno 26, appena sveglia mi racconta un sogno: aveva un ragno in bocca e vedeva cadere tre bambini tutti insieme. Non credo a queste cose, ai sogni e alla loro interpretazione: ma in quello stato d'animo, ho pensato subito a loro tre, in quelle zone del maremoto. Sono stata veramente male. Quel pensiero era come un chiodo fisso nel cervello, fino alla meravigliosa telefonata liberatoria. Questa è la verità, ed è giusto che si conosca, per evitare tante chiacchiere come quelle che si sono dette in giro in quei giorni a Molfetta». Una storia a lieto fine in una spaventosa tragedia.
Felice de Sanctis
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