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La Pasqua nel primo Novecento Frammenti di storia
15 aprile 2001

di Marco de Santis Lo spartiacque tra la Pasqua tradizionale e la Pasqua rinnovata è costituito dal periodo compreso fra le tragedie della prima e della seconda guerra mondiale. Già la Grande Guerra non ha rappresentato una svolta storica solo per la caduta del fatuo ottimismo progressista del tardo Ottocento, per il crollo del primato europeo e per la crisi del liberalismo e del liberismo, ma anche per i cambiamenti nelle abitudini della vita quotidiana di tutti. Ad esempio, la limitazione dell’orario di apertura dei negozi e l’adozione dell’ora legale sono un’eredità della prima guerra mondiale, benché in Italia l’ora legale, introdotta nel 1916, sia stata abolita nel 1920 per l’avversione dei lavoratori, soprattutto degli operai torinesi della FIAT. Ancora più incisivo e traumatico è stato l’impatto della seconda guerra mondiale con la spaccatura del mondo in “blocco occidentale” e “blocco orientale” e, per quanto riguarda più espressamente l’Italia, con i problemi della ricostruzione materiale e morale. Fallita l’esperienza monarchica, col referendum del 2 giugno 1946 è nata la Repubblica Italiana e con la Costituzione promulgata nel ’48 l’Italia ha avuto il primo statuto formulato con metodo democratico. Gli anni seguenti hanno dato l’avvio a una fase di trasformazione economica e sociale senza precedenti, che ha visto l’Italia passare da paese prevalentemente agricolo a paese eminentemente industriale, ponendo le basi per il “miracolo economico” e la scolarizzazione di massa. In questo contesto s’inseriscono le innovazioni della liturgia avviate da Pio XII con l’enciclica Mediator Dei del 1947 e le norme per la celebrazione liturgica della Settimana Santa introdotte da un decreto del 1955. Il decreto generale, datato 16 novembre 1955, fu pubblicato negli «Acta Apostolicae Sedis» in data 23 dicembre 1955. Le nuove disposizioni entrarono in vigore il 25 marzo 1956, Domenica delle Palme. Pio XII ripristinò il triduo pasquale originario riportando la veglia alla notte tra il Sabato Santo e la Domenica di Resurrezione, a un’ora corrispondente alla verità storica del Vangelo. A Molfetta, per effetto di tali nuove norme, dal 1956 l’uscita della statua di Cristo morto e poi degli altri Misteri (rë stàtëlë a lê nêutë) dalle 4 del mattino fu posticipata alle 16 del Venerdì Santo. Analogamente l’inizio del corteo delle statue della chiesa del Purgatorio (rë stàtëlë du Prëgatórjë) dalle prime ore notturne fu differito alle ore 13 del Sabato Santo. Le disposizioni prescritte dal decreto del 1955, ovviamente, influenzarono non solo i riti processionali, ma anche la liturgia pasquale e le connesse forme del culto popolare. Difatti, poiché dalla seconda metà del Settecento al 1955 il corteo della Pietà si svolgeva dalle prime ore notturne al mattino del Sabato Santo, fino a tale anno le campane non venivano sciolte nella notte tra il Sabato Santo e la Domenica di Resurrezione, ma dopo il rientro della statua della Pietà in chiesa, cioè, con oscillazioni dipendenti anche dalle condizioni meteorologiche della giornata, approssimativamente intorno alle undici del Sabato Santo. Allora, dopo l’intonazione del “Gloria in excelsis Deo”, mentre abbëvësscèvënë rë chêmbênë, mentre “resuscitavano” le campane, fin qui silenziose, alle note del festoso scampanìo ognuno si levava il cappello e le puerpere e le madri toglievano la cuffia ai neonati e agli infanti, lasciandoli a capo scoperto (a la ngaròënë), affinché la benedizione di Cristo risorto scendesse sulle loro teste innocenti. In quel momento, tra il frastuono dei campanacci di giovani pecorai e vaccai, le macellerie schiudevano le porte, mostrando gli agnelli ornati di violette e rosmarino, e le pizzicherie spalancavano gli usci ostentando salumi e formaggi in quantità con addobbi di bandierine di carta e violacciocche. Nell’immaginario popolare era la visione del paese del Bengodi che trionfava sul fantasma macilento delle privazioni quaresimali. Durante il pranzo si presentava sul desco l’agnello benedetto col brodo di uova sbattute (u bënëdittë cu vrëdéttë) oppure arrostito o in ragù o preparato in altri modi gustosi. Non dovevano mancare le uova sode (simbolo di fecondità e rinascita), meglio se colorate di cremisi con un’alga marina detta vèrgadòëvë (la corallina nera) e donate ai fanciulli, ma a poco a poco sono state sostituite dalle consumistiche uova pasquali di cioccolato con la sorpresa. Fra i dolci non si poteva dimenticare la scarcéddë a forma di cuore, di stella, di cavallo, di asinello, di colomba, di gondola, di borsa, di cestino o di grossa ciambella. I più agiati preferivano la scarcella ricoperta di glassa e ripiena di pasta di mandorle e marmellata. I meno abbienti si accontentavano di quella fatta di semplice pasta frolla ricoperta di giulebbe (scëléppë), con i confettini argentati (chëmbëttùzzë d’argìëndë), gli anacini (l’ênësìnë) e l’immancabile uovo sodo (ùëvë tùëstë). Per fortuna dei ghiottoni, questa tradizione resiste anche all’incalzare dei prodotti industriali. Anche la Santa Pasqua ha o meglio aveva i suoi detti, come il rimprovero scherzoso Vu léssë bënëdittë a Ppàsquë, quênnë së bënëdìscënë l’êgnìëllë, Che tu possa essere benedetto a Pasqua, quando si benedicono gli agnelli, o come il proverbio Pasqua mêrzìnë: o péstë o uuèrrë o trêmòëtë, Pasqua marzaiola: o peste o guerra o terremoto. Se la pasqua di marzo è da evitare per i menzionati presunti terribili effetti, la pasqua di aprile sembra che si possa festeggiare dovunque: Nêtàlë fàuuë a ccàstë, Pasquë addó t’acchja t’acchjë, Natale fallo a casa tua, Pasqua dovunque ti trovi, che corrisponde al proverbio toscano Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. Ma non va taciuto che molti adattano i proverbi alle circostanze e alle festività e, per l’occasione, capovolgono l’impostazione di partenza e sentenziano: Pasquë fàllë a ccàstë, Nêtàlë addó t’acchja t’acchjë, Pasqua falla a casa tua, Natale dovunque ti trovi. Che furbacchioni!
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