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Tragedia Truck Center a Molfetta, il Comitato 3 marzo critica la sentenza che ha assolto tutti gli imputati per la morte dei 5 operai
04 agosto 2017

MOLFETTA - Il Comitato 3 marzo nato dopo la tragedia della cisterna del Truck Center a Molfetta, esprime la sua perplessità per la sentenza che ha mandato assolti tutti gli imputati del processo per la morte di 5 operai per la esalazione di gas venefici.

Il Comitato critica la sentenza e si chiede perché in Italia non si riesca a fare giustizia, anche a causa di un sistema giudiziario complicato.

Ecco il comunicato: «L’ultima sentenza relativa al caso Truck Center, ribaltando in appello quella di primo grado, ha assolto o prosciolto per prescrizione tutti gli imputati, con l’unica eccezione della stessa Truck Center, il cui socio accomandatario e rappresentante legale è una delle cinque persone decedute per intossicazione da acido solfidrico il 3 marzo 2008. Insomma, allo stato, si potrebbe quasi dire che per il sistema giudiziario italiano l’unico colpevole sia il morto.

Certo non possono negarsi le responsabilità della Truck Center e del suo amministratore per le omissioni delle misure di sicurezza, il cui rispetto avrebbe evitato la tragedia. Tuttavia, senza voler giustificare comportamenti illeciti e irregolari, non va sottaciuto che non di rado realtà aziendali poco rilevanti o marginali si trovano a doversi accollare il cosiddetto lavoro sporco, che le imprese più importanti non hanno interesse o non ritengono opportuno svolgere direttamente. Per evitare di essere estromesse dal mercato, piccole imprese possono accettare di eseguire i lavori più ingrati, pericolosi e malpagati, perfino ai limiti della regolarità e della legalità, e, per realizzare un margine di profitto, ricorrere anche alla compressione della spesa a tutela della sicurezza, della salute e dell’ambiente in violazione o elusione delle relative norme.

Va, d’altro lato, rimarcato che alcuni imputati sono stati prosciolti per prescrizione, ossia che la Corte d’Appello li ha ritenuti colpevoli, ma hanno evitato la condanna per il mero fatto che si sono lasciati trascorrere più di nove anni dal tragico evento. Di queste lungaggini è praticamente escluso che qualcuno possa essere chiamato a rispondere.

È pure da rammentare che tra gli imputati del ramo di processo in argomento non era compresa l’Eni, oggetto di procedimento a parte. La suddivisione in più tronconi ha nei fatti agevolato la difesa degli imputati e favorito la svolta sconvolgente e inaccettabile fino al grottesco della vicenda processuale. Particolarmente grave è che tutto ciò abbia nei fatti consentito di non considerare minimamente la configurabilità della fattispecie del dolo indiretto o eventuale, oltre che della complicità e della associazione per delinquere, nei rapporti fra Eni e Nuova Solmine, rispettivamente mittente e destinataria del carico di zolfo fuso con annesso acido solfidrico in quantità letale. Eppure non mancavano pesanti e concordanti elementi a sostegno di una tale configurabilità, essendo stata provata la totale consapevolezza delle due imprese circa la presenza di acido solfidrico in quantità abnorme nelle ferro-cisterne che trasportavano zolfo fuso, tanto che la Nuova Solmine aveva ottenuto uno sconto sul prezzo in considerazione di tale circostanza.

Nell’altro processo, l’Eni e sette suoi dipendenti sono stati assolti in primo grado dall’accusa di omicidio e lesioni colposi, essendosi ritenuto che non fosse possibile escludere, qualora la presenza del gas letale fosse stata correttamente segnalata dall’Eni, che Nuova Solmine potesse comunque rimuovere le segnalazioni e riprodurre una situazione di pericolo. Se non si trattasse di un evento così terribile, una tale motivazione sarebbe da qualificare come risibile, se non comica. Parrebbe infatti doversi affermare che le leggi poste a salvaguardia della vita e dell’integrità dei cittadini esistono perché tutti, comprese le multinazionali con profitti miliardari e a forte partecipazione statale, vi si debbano attenere, e che non debbano ammettersi argomenti cavillosi e capziosi, artifici e trucchi logici, supercazzole, acrobazie verbali e arzigogoli da azzeccagarbugli, del tutto incongrui per un giudice giudicante e in un caso di così elevata gravità.

L’esito fin qui aberrante, che si spera possa essere rovesciato nel prosieguo dell’iter processuale, appare in linea con la prassi consueta del mondo degli affari, specie di quello di maggior rilievo. A una grande impresa non conviene lesinare sulle attività di lobbying, né in contributi e regalie a enti partitici e sindacali e nell’acquisto di spazi pubblicitari su media di ogni tipo. Si tratta infatti di investimenti destinati a tradursi prima o poi in provvedimenti legislativi favorevoli, in termini di appalti, concessioni, esclusive, brevetti e altro, accesso privilegiato al credito, agevolazioni fiscali, incentivi e contributi pubblici, precarizzazione dei rapporti di lavoro e compressione del carico retributivo e contributivo, minori oneri e obblighi a tutela dell’ambiente e della salute.

Negli ultimi decenni, il protrarsi di politiche favorevoli ad affaristi, finanzieri, ricchi e super-ricchi e sfavorevoli al mondo del lavoro ha contribuito ad approfondire le disuguaglianze fra percettori di profitti, rendite e compensi manageriali, da una parte, e lavoratori e classi disagiate, dall’altra. Le disparità nella distribuzione della ricchezza e del potere si riflettono, più o meno direttamente e consapevolmente, anche in disuguaglianze nei rapporti con gli organi giudiziari.

Si suole affermare che le sentenze si rispettano; ma ciò non vuol dire che si debbano condividere. E quelle in questione appaiono palesemente offensive per la giustizia e la verità, oltre che per la logica e l’intelligenza e per la memoria delle vittime, la democrazia e la dignità dei cittadini nel cui nome è esercitata la funzione giudiziaria. I giudici hanno manifestato estrema benevolenza verso l’Eni e, quantomeno, noncurante distrazione e negligente superficialità nel valutare gli elementi a suo carico. Ma quando vicende di questo genere si evidenziano chiaramente come pesanti prese in giro, risultano devastanti per la credibilità delle istituzioni e anche dei media, che nei fatti ignorano o minimizzano la vicenda, facendo risaltare il sostanziale distacco di entrambi dalla realtà, su cui avrebbero il compito o la pretesa di intervenire, giudicare e informare.

La situazione parrebbe a questo punto irrimediabilmente compromessa, salvo che, tramite ricorso in Cassazione, non si ottenga la riunificazione dei processi e la riconsiderazione delle imputazioni, ossia la configurabilità nei confronti di Eni e Nuova Solmine dei reati di omicidio plurimo volontario, nel senso del dolo indiretto o eventuale, di concorso e complicità nel medesimo e di associazione per delinquere. In mancanza, in tanti cittadini comuni e perbene si rafforzerebbero la frustrazione e la convinzione dell’impunità dei ricchi e potenti, quasi non vi fosse stato nulla di male negli atti commissivi ed omissivi delle due imprese ed esse possano tranquillamente ripeterli, in attesa che il tempo ne cancelli di nuovo colpe e ricordo e che magari ci si rassegni definitivamente al fatto che le norme penali valgano solo per i deboli, i poveri e … i morti».

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