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Storia e ricerca sulle origini del canto della Santa Allegrezza
15 dicembre 2016

Allo stato attuale delle ricerche storico- musicali sul canto della Santa Allegrezza si possono individuare svariate fonti: 1) il registro di preghiere appartenuto al parroco della chiesa di S. Gennaro Giuseppe Binetti e databile al 1884, che include la trascrizione di un testo ottocentesco del canto; 2) il resoconto “poetico” dello scrittore Pasquale Samarelli pubblicato nel 1885 e l’articolo di Mauro Altomare pubblicato sulla “Rivista delle tradizioni popolari italiane” di De Gubernatis del 1895 (di entrambi ci rende edotti sin dal 1996 il professor Marco Ignazio de Santis); 4) il manoscritto compilato dal musicista Francesco Peruzzi nel 1932 e custodito nella Biblioteca Comunale di Molfetta; 5) gli studi storici condotti dal sacerdote Giovanni Capursi a partire dal 1959 e confluiti in vari opuscoli a tema; 6) le edizioni dei testi pubblicate da vari tipografi locali tra Ottocento e Novecento; 7)la versione musicale composta dal maestro Angelo Inglese nel 1942 (ringrazio l’amico Alfredo Fiorentini per la notizia); 8) le edizioni discografiche del 1954 e del 1963; 9) le ricerche condotte dal gruppo La Berzeffa a metà degli anni Settanta del Novecento, sui canti popolari. In merito al testo appaiono ancora valide, oggi, le osservazioni di Capursi: in questa sede non si affronterà quel tipo di analisi, bensì si offriranno al lettore alcune puntualizzazioni e spunti di ricerca sull’aspetto musicale della Santa Allegrezza. Un primo problema che oggi non ha soluzione è quello posto dalla domanda se a cantare anticamente fossero realmente i becchini come sostenuto da Mauro Altomare e secondo quale prassi esecutiva; annotò che “dapprima l’uso tradizionale vigeva solo presso i becchini; ora essi vanno con altri cittadini… con voce lugubre… Alcun tempo dopo, sorsero allo stesso scopo delle compagnie di circa sei individui. Di questi, due o tre sono forniti di chitarra o di mandolino, gli altri fanno ufficio di cantatori. Si mettono in corona e, con voce alta, cantano e suonano, all’unisono”. Indicazioni su quale potesse essere la prassi esecutiva sono anche contenute nel manoscritto di Francesco Peruzzi: vi sono letrascrizioni della Santa Allegrezza da lui stesso definita “vecchia” (di autore ignoto) e di quella composta da suo padre Giuseppe nel 1880, “a richiesta di diverse famiglie desiderose di quella nuova musica… foggiata com’era del caso, su impalcatura di cantilena popolare… prese subito divulgazione e sostituì la prima e, già oggi, avendo festeggiato 52 anni di vita si esegue ancora”. Quella “cantilena”, tra Otto e Novecento divenne l’inno dei sostenitori di Gaetano Salvemini, nella contesa politica del 1913. La Santa Allegrezza, aggiunse Peruzzi, si cantava nei salotti delle case borghesi a voci dispari (coro di uomini e di donne) con l’accompagnamento del pianoforte e di strumenti a corda e a plettro, mentre nelle case operaie ed anche per strada, a voci pari di uomini con strumenti ad arco, plettro, a pizzico e a fiato “in formazione di una bella orchestrina ambulante”. A fornire ulteriori dettagli sulla prassi dei tempi remoti, Capursi nel 1961 dava conto della testimonianza orale di un longevo sacerdote che si ricordava come fosse ”consuetudine antica nella notte della vigilia di Natale far girare pochi strumentisti di banda ed altri giovani, cantando su di una melodia monodica, a due cadenze mediane ed una finale”; quel sacerdote ricordava anche il nome del “suonatore di basso certo Alessandro Prezioso, sarto… il suonatore di corno, un calzolaio alias Pacidde; Panunzio il falegname che suonava il trombone di accompagnamento”. La rilevanza dell’intento etnomusicologico di Capursi è ben evidente dalle testimonianze da lui raccolte dalla viva voce di “un vecchio nonagenario abitante in Via Foggia che l’aveva imparata dalle labbra dei becchini, da Francesco”, dalla vedova Turtur di ottantasette anni ed infine dalla signora Marta De Marco vedova Pisani, che riferì la versione della Santa Allegrezza “così come era cantata a Molfetta il 1890”. Nell’ambito di queste brevi note non si può non accennare alle due edizioni discografiche della Santa Allegrezza; quella del 1954 fu edita per conto della Ditta Pasquale Gadaleta ed incisa su dischi Cetra. La concertazione del coro “I pueri cantores” e dell’orchestra “Vendola” fu affidata a don Salvatore Pappagallo, che eseguì la versione tradizionale del canto, non quella indicata da Francesco Peruzzi come la più antica; il testo fu riadattato dal sacerdote Nicolò Allegretta. Interessanti alcune annotazioni riportate sul foglietto allegato ai dischi: “prima dell’avvento della radio, erano da noi molto diffuse le piccole orchestrine le quali si prestavano, durante la Novena di Natale, ad allietare le dimore di molti cittadini col canto della Santa Allegrezza… con la diffusione della radio, le orchestrine sono molto diminuite… nelle nostre abitazioni, si può dire, non manca il radiofonografo, però durante il periodo natalizio la nostra popolazione non era soddisfatta…. ci voleva il disco della Santa Allegrezza… ormai il miracolo è compiuto: la radio non ha soppresso il canto amico, ma lo fa trionfare in pieno nella case dei ricchi e dei poveri” (Pasquale Gadaleta, Natale 1954). Il coro constava di tredici soprani voci bianche, cinque tenori e sei bassi (tra cui Giovanni Picca), mentre l’orchestrina prevedeva tre fisarmoniche, quattro violini, un contrabbasso, tre chitarre (tra cui Angelo Ribera), due mandolini ed un triangolo. Circa dieci anni dopo, don salvatore Pappagallo tornò ad incidere (ancora una volta con la produzione della ditta Gadaleta) la Santa Allegrezza con il coro universitario Fucino e la “Piccola orchestra folcloristica della città di Molfetta”; questa volta le versione fu quella “vecchia”, armonizzata per l’occasione. Il coro prevedeva voci di soprani e contralti donne anziché le voci bianche del 1954; l’orchestrina era formata da due mandolini, cinque chitarre (tra cui Alfredo Fiorentini), un contrabbasso, due clarini, un oboe ed un flauto. *** Si propongono alcune interessanti ed inedite fotografie provenienti dall’archivio personale di Alfredo Fiorentini, vero cultore delle tradizioni musicali molfettesi di Natale; si tratta di documenti molto interessanti, forse tra le più antiche testimonianze fotografiche dei gruppi che cantavano durante il periodo delle feste natalizie. La foto di più antica data risale al 25 dicembre del 1950 e raffigura il gruppo organizzato da Nicola Fiorentini (padre di Alfredo ed altro grande cultore delle tradizioni musicali molfettesi) in occasione di un concerto tenutosi al Preventorio di Molfetta su invito dello storico Aldo Fontana; fra i canti eseguiti in quell’occasione vi fu anche la nenia Caro bambino (Ringrazio qui l’amico Lazzaro Laforgia che me ne ha fatto consultare il testo a stampa, edito dalla tipografia di Michele Conte; purtroppo la stampa non è datata). Nello stesso 1950 il gruppo di Fiorentini “portò” la Santa Allegrezza al Comune di Molfetta. La seconda foto (sicuramente dal punto di vista etnomusicologico, la più interessante) è del Natale del 1959, quando il gruppo canoro e strumentale di Nicola Fiorentini cantò in una casa di via Amente. La terza foto è del Natale 1962: il gruppo di Nicola Fiorentini é 1° classificato al concorso della Santa Allegrezza tenutosi presso il Teatro POA. La quarta ed ultima foto è del 1970: vi è raffigurato, nel duomo antico di Molfetta, il gruppo di Alfredo Fiorentini (2° classificato). In conclusione sembra sia lecito chiedersi se il canto della Santa Allegrezza sia “popolare” nel significato gramsciano del termine. Gramsci distingueva “i canti composti dal popolo e per il popolo, quelli composti per il popolo ma non dal popolo, quelli scritti né dal popolo né per il popolo, ma da questo adottati perché conformi alla sua maniera di pensare e di sentire. Mi pare che tutti i canti popolari si possano e si debbano ridurre a questa terza categoria, poiché ciò che contraddistingue il canto popolare, nel quadro di una nazione e della sua cultura, non è il fatto artistico, né l’origine storica, ma il suo modo di concepire il mondo e la vita, in contrasto colla società ufficiale: in ciò e solo in ciò è da ricercare la «collettività» del canto popolare, e del popolo stesso”. La Santa Allegrezza non fu composta dal popolo, né unicamente per il popolo; non un canto tipo quello dei cavamonti molfettesi (ascoltato spesso durante gli spettacoli teatrali di Pietro Capurso negli anni ’80) dove è ben rintracciabile lo scontro tra la cultura egemone e quella del popolo; la Santa Allegrezza rientra indubbiamente nella terza categoria adottata da Gramsci, un canto vicino all’immaginario popolare sulla religione. La pratica di quel canto alimenta senza ombra di dubbio la fiamma che tiene ancora in vita, in quella che Guy Debord ha definito “società dello spettacolo”, lo spirito di una cultura incontaminata.

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