Notevole successo è stato riscosso dalla collettiva Ritratti e autoritratti dei maestri molfettesi, inaugurata sabato 17 agosto. La mostra è stata curata dal professor Gaetano Mongelli, storico dell’arte, che ha magistralmente tenuto anche l’intervento di inaugurazione. Lo studioso si è avvalso, nella realizzazione, dell’ausilio di un team di artisti molfettesi, in particolare Addamiano, anima del progetto, insieme a Lunanova, Paloscia e Sciancalepore nella cura dell’allestimento e nella ricerca delle opere, alcune delle quali conservate in collezioni private. L’evento, patrocinato dal Comune di Molfetta, rientra nel fitto cartellone di Eventi Molfetta 2019 predisposto dall’Assessore alla Cultura Sara Allegretta. Esposto in originale per l’inaugurazione, grande interesse ha suscitato l’autoritratto a sanguigna di Corrado Giaquinto. La testa leggermente reclinata verso sinistra, la posa orante, l’espressione sognante del viso, il disegno capace di suggerire – in amebeo con un gioco d’ombre – persino le pieghe dell’addome e le sporgenze muscolari del braccio. La sanguigna giaquintesca rappresenta l’ideale punto di partenza di un percorso nella ritrattistica relativa ai pittori molfettesi dal Settecento ai giorni nostri. In realtà l’itinerario ha un’origine ancor più remota, con l’ideale omaggio di Paolo Lunanova alla ricerca di Lisippo, da molti considerato il padre del ritratto nella sua valenza fisiognomica, strumento di rappresentazione della complessità psichica, anche a detrimento della ricerca di un’ideale bellezza. In un gioco di specchi, le immagini di Lisippo e di Lunanova si confondono, come ideali – e ironici – autoritratti di quest’ultimo, e, nel momento stesso in cui l’artista tributa il suo omaggio alla bellezza, si coglie bene come essa non sia disgiunta dal dato fenomenico e dalla ricerca della verità. Dopo il settecentesco Giaquinto, altre figure che appartengono alla generazione nata – in momenti diversi – nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e operante ancora al principio del Novecento, sono Filippo Cifariello e Giulio Cozzoli, legato al primo nel comune soggiorno a Roma e a Passau. Ai due scultori Natale Addamiano tributa un efficace omaggio riproponendo, e nel secondo caso rivisitando, i ritratti pittorici che ne realizzarono Galileo Chini (in uno scambio di cortesie, dato che Cifariello aveva scolpito un busto di Chini; rinviamo, per questi aspetti, a Gaetano Mongelli, Filippo Antonio Cifariello scultore) e, nel caso di Cozzoli, Mastropasqua. Gli altri artisti di cui sono esposte opere sono Siviero, Minervini, Vincenzo M. Valente, Poli, Cosimo Carabellese, Salvatore Salvemini, D’Ingeo, Allegretta, Paloscia, Grillo, Brattoli, Scazzosi, Paolo Sciancalepore, Gianluca De Cosmo e Wan Gao, cinese, artefice di un ritratto del già citato Gaetano Grillo. Tra gli artisti rappresentati, invece, dobbiamo menzionare alcuni maestri della pittura molfettese come Antonio Nuovo, effigiato, in tre momenti differenti della sua vita, da Carabellese, Paloscia e Addamiano, a testimonianza del fascino e dell’autorevolezza suscitati dalla sua figura. La mostra di cui ci occupiamo rappresenta un felice esempio del legame di sodalitas che può instaurarsi tra artisti, accomunati da una ricerca della bellezza e della verità che si dispiega in rivoli di natura molteplice. Il generoso dono al servizio dell’altro (magari il proprio maestro, come avviene per il ritratto di Addamiano realizzato da De Cosmo), il desiderio di eternare uno sguardo, di catturare, al di là del dato fenomenico, per ciò stesso transeunte, la partitura di un cuore. Ecco perché spesso, come nel caso della maggior parte dei pittori attestati, la rassegna propone dittici o trittici che rivelano, attraverso la ritrattistica, il sentimento del tempo. È il caso, per esempio, di Leonardo Minervini, di cui citeremo, per fare un esempio, la bellissima rappresentazione di Carlo Siviero, allora insegnante presso l’Accademia di Belle Arti a Roma, nel 1931. È l’immagine, vagamente accigliata, di un uomo deciso ma al contempo pensoso, cui funge da ideale prosecuzione l’opera, nel 1986, dell’espressiva matita di Paloscia. In essa si offre allo sguardo l’icona di un uomo segnato dal tempo nelle rughe del volto e nelle grinze del collo, e, proprio per questo e per l’intelligenza di uno sguardo vivido, dotato di una sua innegabile auctoritas. La medesima idea può essere considerata per gli autoritratti, auscultazioni del sé, effettuati in momenti ravvicinati (come nel caso di Franco D’Ingeo, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, in una solida figurazione che non manca, negli sfondi, di metafisiche forme geometrizzanti) o lontani nel tempo. Valga l’esempio di Franco Poli, di cui spicca l’autoritratto del 1941, immagine romanticamente severa, resa tale ancor più da una pennellata potente e tempestosa e dalla tavolozza calda, ma ‘senza fanfare’. Nel percorso curato da Mongelli ogni tassello concorre all’armonia del tutto. I toni squillanti degli espressivi autoritratti di Allegretta, gli ammiccamenti giocosi di Grillo, l’ironia di Zaza che fotografa (con tocchi di pittura sullo sfondo) Lunanova in versione di pensoso baigneur, su un ‘trono’ in riva al mare che sa d’ariostesco. E poi ancora le intersezioni tra disegno, fotografia, pittura e pittoscrittura (con attenzione alla forza comunicativa della parola, vessillifera dei “messaggi dell’anima” e dell’immagine) di Vito Brattoli; l’esplorazione psicologica e fisiognomica di Paolo Sciancalepore; l’efficace sintesi di Vincenzo Maria Valente che, nell’autoritratto del 1934, con una scelta comune – solo per fare alcuni esempi – ad alcuni ritratti di Modigliani o De Pisis, senza perdersi in dettagli di sfondo (di cui pure i colori intessono un bel dialogo con l’ombra portata), punta l’attenzione sulle insegne del fare pittorico come il camice bianco, la tavolozza, richiamata, con toni differenti, dai cromatismi dalle scarpe e dalla sedia. E che dire della fedeltà al reale di Doriano Scazzosi, non disgiunta da un intellettualistico e stimolante gioco di reduplicazione dell’immagine prescelta, che si sdoppia e respira su tutta la superficie della tela? O dello straordinario autoritratto di Salvatore Salvemini, con il suo maestoso espressionismo in cui protagonisti divengono la fronte ampia, le folte sopracciglia, gli occhi indagatori, le mani operose e l’ombra comunica come e, forse, più della luce? Una rassegna di pregio, con l’auspicio che, sempre con l’imprescindibile sostegno dell’amministrazione, tale percorso, in una ricognizione storica ancora più puntuale e magari con la realizzazione di un catalogo, possa arricchirsi di ulteriori apporti di artisti e artiste della nostra città, le cui opere in alcuni casi non sono state facilmente reperibili. © Riproduzione riservata
Autore: Gianni Antonio Palumbo