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L'Hotel del libero scambio, spettacolo teatrale
15 maggio 2004

Vane superstizioni con corollario di presunti fantasmi, mogli svampite e distratte o befane, mariti gigioni e abituati a mentire con la stessa facilità con cui respirano, sono gli ingredienti dell'ennesimo (per citare Ragno) 'assassinio della borghesia di ieri e di sempre' perpetrato da Georges Feydeau nella felicissima pochade “L'hotel del libero scambio”. A darle vita sulle scene, come qualche anno fa per “La dame de chez Maxime”, la regia di Onofrio Antonio Ragno, guida del Collettivo 'Freedom', recentemente promotore d'un allestimento della “Giornata particolare” di Ettore Scola. Un hotel squallido, solo in apparenza discreto testimone d'amori proibiti, diviene punto di convergenza d'una malmaritata (Claudia Buono) e del suo focoso, ma imbranato, e un po' stagionato, amante (Donato de Giglio), del marito di lei, borghesucolo ottuso e razionalista solo in superficie (Sergio Altizio), e del nipote di quest'ultimo, Maxime, (Giovanni La Forgia), preda d'un'assatanata (e bella davvero) maestra non di filosofia, ma d'amore carnale (Gabriella Manente). A scombinare i piani un invadente, a tratti balbuziente, amico di famiglia (bravissimo Vincenzo Rotondella), con figlie pesti annesse e connesse e, infine, perfino la polizia. Quando tutto sembra perduto per i fedifraghi, in una sorta di spassoso 'elogio della menzogna', il caso riesce a ribaltare clamorosamente i giochi. L'eroica e iellata befana (Angelica Germinario) e il marito becco si trasformano da vittime in sospetti carnefici, con la complicità dell'ottusità di un poliziotto compiacente (Mirko Gadaleta). Quando gli altarini paiono scoprirsi, ecco intervenire una provvidenziale pioggia, desiderata dagli adulteri tanto quanto quella manzoniana, annunciatrice di tempi migliori; alla fine, l'unica a pagare sembra la povera cameriera (licenziata), capro espiatorio anche in virtù d'un galeotto vestito rosso fiamma, mentre il tonto Maxime, che sa di Cartesio ma non di vita vissuta, riceve persino un premio in danaro, traendo una morale del tutto utilitaristica dalla sua boccaccesca trasgressione. Un plauso al regista e agli interpreti, affiatati e spiritosi al punto giusto: alla versatile Claudia Buono, civetta, sdegnosa, tragi-comicamente enfatica, uno dei perni della commedia; al gigioneggiante Donato de Giglio; alla Germinario, che sfoggia una dizione limpida e si rivela caratterista di pregio; a Sergio Altizio, perfetto nella parte del 'buon Diavolo'; a Vincenzo Rotondella, per il suo svampito e irresistibile avvocato Mathieu; alla Manente e a La Forgia, graziossimi colombini alla scoperta delle gioie del sesso. Ma in questo quadro, in cui segnaliamo anche Alessandro Pasculli (Bastien) e Domenico Lunanuova (Boulot), poco discreti custodi di questo tempietto delle trasgressioni fallite, o le pestifere bambine (Angela Cappelluti, Silvia de Biase, Gaia Pigna, Gabriella Scuccimarro), nessuno demerita. E al divertimento, che scaturisce dall'impietosa e grottesca rappresentazione di questo microcosmo rarefatto, subentra nello spettatore la consapevolezza d'aver parteggiato per i 'cattivi', per le loro bugie architettate ad arte allo scopo di conservare e santificare un ordine costituito fondato su coacervi di ipocrisie. La sensazione che ne scaturisce non è proprio edificante, ma costituisce una riprova dell'estrema perizia di ha architettato questa graffiante commedia dei 'furbi stupidi' per sbatterla in faccia, 'senza pietà', agli sciocchi borghesi d'ogni tempo. Gianni Antonio Palumbo
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