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Il lavoro perduto e ritrovato Recensione
15 gennaio 2013

La tematica del lavoro è oggi straordinariamente e, ahimè!, drammaticamente attuale di fronte alle sconfortanti cifre sulla disoccupazione che cresce ancora e vede coinvolte tante persone perdenti il posto di lavoro e moltissimi giovani che l’impiego non lo trovano, oppure hanno rinunciato a cercarlo. “Il lavoro perduto e ritrovato” (Mimesis Editore 2012, euro 22,00), è un interessante libro di Autori Vari (Alain Ehrenberg, Alessandro Casiccia, Riccardo Del Punta, Gaetano Veneto, Maurizio Zipponi, Diego Fusaro, Gianfranco Dioguardi, Alessandro Cravera, Franco Debenedetti, Gianfranco Rebora, Amenia Manuti, Maurizio Agnesa, Pasquale Davide de Palma, Luca Valerii, Enzo Spaltro) curato da Gianni Vattimo, Pasquale Davide de Palma e Giuseppe Iannantuono, che fin dal titolo ci fa capire che il suo contenuto è prevalentemente ottimistico e dalla lettura delle prime pagine emerge subito questo ottimismo in linea con quelle teorie economiche che ritengono fondamentale il clima di fiducia della gente per generare sviluppo. Occorre realizzare una rivoluzione culturale per far acquisire una nuova concezione del lavoro, interpretando il cambiamento e superando, come sostiene Gianni Vattimo, la condizione di marginalità che sta a cavallo tra consumo e lavoro, entrambe caratterizzate dalla precarietà. Ecco perché più che di specialisti, ci sarà bisogno di specializzarsi continuamente e alla base ci dovrà essere sempre una formazione umanistica. Ma la qualità del libro è soprattutto in quella ricerca del lavoro come piacere e amore e della sua qualità, pur nell’attuale situazione di precarietà. In pratica, si cerca di rovesciare l’assunto che la precarietà possa essere motivo di disperazione, per farla diventare una risorsa. E fa piacere che siano soprattutto i giovani come Davide de Palma a parlare di amore per il lavoro quando con Maurizio Agnesa, nel suo saggio, sostiene che “Il grande dramma dell’attuale società è la mancanza di fidelizzazione verso l’impresa da parte del lavoratore e l’errore comune è quello di pensare al lavoratore stesso come parte di un processo o di un sistema. Tuttavia tale visione non è in grado di descrivere ciò che il lavoratore realmente vive e sente”. E poi, dopo aver messo l’uomo al centro dell’impresa, aggiunge un elemento di valore, come la “speranza” che, pur restando una costante della visione cristiana del mondo (vedi la Dottrina sociale della Chiesa), oggi è stata mortificata e vanificata dall’attuale società. Di qui nasce il progetto di ripartire dal superamento della temporaneità, dal semplificare, tutelare, valorizzare il lavoro. Dal considerare non più i lavoratori delle risorse da sfruttare, ma un capitale su cui investire. Bisognerà sviluppare il capitale umano – dicono questi giovani – e questa valorizzazione è un dovere etico che passa necessariamente dal superamento della precarietà”. Chi come me ha fatto il ’68 ritrova in alcune espressioni quello che il prof. Gaetano Veneto scrive nel suo saggio pubblicato all’interno del libro: Ancora oggi, politologi, sociologi, economisti e alcuni studiosi del diritto, come i giuslavoristi, si dividono tra entusiasti e detrattori di quello che fu comunque un grande momento di scossa delle certezze che sembravano sorreggere un impetuoso sviluppo economico di una società capitalistica “affluente”, per usare un termine caro a Galbraith in un suo famoso saggio. Di certo si può solo affermare, senza tema di smentite, che quel sommovimento sociale, anziché rivoluzionario ed anticapitalista, ha costituito la base per una riflessione autocritica dei sistemi che reggevano l’economia del tempo e soprattutto gli equilibri istituzionali, costringendo ad un salto di qualità una democrazia bloccata negli equilibri nati dal secondo dopoguerra e, fino a quel momento, incapace di rinnovare se stessa anche nelle forme di rappresentanza delle nuove classi sociali che lo sviluppo economico, allora non ancora aggredito dalla grande finanza, aveva fatto emergere nella società. L’odierno movimento degli “indignados” accomuna oggi, come nel Sessantotto del secolo scorso, tutti gli insoddisfatti, in particolare i giovani, di un sistema capitalistico anche questa volta incapace di rinnovare le sue politiche e le sue stesse istituzioni, in sintonia con le nuove profonde innovazioni nei modi di vivere e produrre, e soprattutto in sintonia con la fin troppo nota e citata “globalizzazione”. Questa volta – conclude Veneto - però la protesta si accentua più che sulle forme del capitalismo, su quella che, parafrasando Lenin, potremmo chiamare la sua malattia “estrema”, la finanza, nella sue articolazioni locali e internazionali. Avendo vissuto quegli anni del ’68 da protagonista delle battaglie studentesche, oggi pur non rinnegando quel movimento, sul quale concordo negli aspetti positivi sottolineati nell’analisi di Veneto, mi chiedo cosa sia rimasto di quel moto rivoluzionario (a parte alcuni danni, non ultimo il terrorismo) soprattutto nell’evoluzione del mercato del lavoro. Uno dei risultati importanti è significativi è stato sicuramente “Lo Statuto dei lavoratori”, del mio maestro Gino Giugni, un tentativo di realizzare la compatibilità fra le ragioni dei diritti e quelle dell’economia, fra le istanze di socialità e quelle di efficienza, ma non è riuscito a capovolgere la logica capitalistica degli imprenditori che oggi mettono in discussione l’art. 18, ma se potessero, cancellerebbero l’intera legge 300 del 20 maggio 1970. E sì perché oggi ci troviamo di fronte ad una crisi indotta dall’evoluzione del mercato che subisce i contraccolpi della cosiddetta globalizzazione che è un leit motiv del libro, proprio nel tentativo di proporre soluzioni al grande problema della flessibilità che genera precarietà. Quando sentiamo gli operai dell’Ilva di Taranto scontrarsi fra loro di fronte alla scelta drammatica fra morire o restare disoccupati, ci chiediamo se la scelta di creare occupazione nel Sud al prezzo dell’inquinamento dell’ambiente e delle malattie conseguenti, sia stata quella migliore. E soprattutto ci chiediamo quanti all’epoca hanno avuto il coraggio o forse la lungimiranza di parlare dei pericoli di questo invasivo insediamento industriale? Oggi la scelta è fra il lavoro flessibile e precario e l’inoccupazione, soprattutto al Sud, come già Gaetano Salvemini nostro insigne concittadino, scriveva nel 1954 nel saggio Molfetta, un Comune meridionale: «Alla inoccupazione giovanile nelle classi lavoratrici si associa la disoccupazione fra gl’intellettuali. Questa è spaventosa. Ai laureati in legge o in medicina, il cui numero è imprecisabile, si debbono aggiungere laureati in lettere, scienze naturali, matematica, e chi sa quanti maestri elementari e ragionieri. La zona sociale franosa dell’Italia meridionale è qui. Tutto quanto si legge negli scritti miei sulla questione meridionale dal 1897 al 1920 deve essere moltiplicato per coefficienti paurosi da chi voglia farsi un’idea delle materie esplosive che si accumulano oggi nel nostro paese». E’ un problema endemico, ma anche un problema che ritorna quello dell’inoccupazione giovanile.ro, come ricorda Alain Ehrenberg nel suo saggio: “Soffrire al lavoro: epurare le passioni o aprire la via all’azione”. Del resto non è un caso che sono aumentati i suicidi, gli incidenti sul lavoro derivanti anche dallo stress e dall’ansia per i ritmi infernali, per inasprimento delle condizioni di lavoro e dall’accelerazione dei tempi di azione. La dimensione tempo è, infatti, divenuta un problema cruciale, come sottolinea Alessandro Casiccia. «Il cambiamento di statuto sociale della sofferenza psichica significa che le patologie individuali di un certo genere, sono diventate delle affezioni sociali, cioè delle disgrazie personali che trovano il loro senso nei disordini del gruppo, dell’impresa, della famiglia, della politica. Si tratta -, scrive ancora Ehrenberg -, di un linguaggio della sventura che unisce il male individuale e il male comune. Si può allora definire la salute mentale come la forma individualista del trattamento delle passioni, vale a dire, di quello che una vita comporta di subìto. Allora oggi l’alternativa al fordismo e al taylorismo è quella dell’autonomia, del lavoratore che, attraverso un’adeguata formazione, apprende a governarsi da solo. La competenza, perciò diventa la grande sfida del futuro, e l’obiettivo dell’azienda diventa quello di organizzare la responsabilità collettiva in vista di aumentare le capacità individuali». Il passaggio, insomma, dalla disciplina all’autonomia, facendo transitare il lavoratore da una funzione passiva ad una attiva, sviluppando delle capacità in grado di far sì che diventi l’agente del proprio cambiamento. Il tentativo è quello di far passare il lavoratore all’autonomia basata sulla conoscenza e sulla convinzione di valorizzare le proprie competenze, anche attraverso una formazione continua. È questo un modo di superare il concetto di ipercompetitività, che genera anche atteggiamenti aggressivi e provoca aspri confronti fra i lavoratori nei quali, il timore di una sconfitta, riduce molti a scegliere la marginalità. Forse dipende anche da questo timore, la rinuncia di molti giovani a cercare lavoro, oltre che dalla certezza di non trovarlo. Per fare questo occorre una nuova cultura del lavoro – ha ragione Veneto – con l’utilizzo delle nuove risorse mass-mediatiche, unico antidoto ad un’amara quanto folle contrapposizione tra padri e figli in tema di ingresso e di uscita nei mercati locali del lavoro, con riguardo al tema dell’allungamento della vita lavorativa. Ecco perché è più che mai necessaria una lettura critica dei sistemi giuridici che regolamentano lo scambio tra domanda e offerta. E in questa fase va rivisto anche il ruolo del sindacato che non può continuare a garantire l’esistente e lo stesso lavoro a tempo indeterminato, perché il risultato è quello che, di fronte alle difficoltà del mercato, alla scarsa competitività, l’azienda sceglie la chiusura e il licenziamento collettivo. Il sindacato deve passare dalla difesa all’iniziativa, come giustamente suggerisce Enzo Spaltro in questo libro: oggi agisce in seconda battuta, reagendo alle proposte della controparte. Domani dovrà tendere a prendere l’iniziativa in prima battuta, attrezzandosi a questo ruolo con nuove capacità. Magari passando dalla lotta al malessere, alla costruzione del benessere. Insomma, la strada è quella di nuovi modelli organizzativi che puntino alla liberazione dal lavoro subordinato al rilancio della soggettività individuale, cercando di non cadere in fenomeni più pericolosi come sottili forme di costrizione. La globalizzazione – avverte Riccardo Del Punta – ha riportato in auge, anche culturalmente, il modello della competizione concorrenziale: tra economie e imprese, ma anche, inevitabilmente, tra individui. Il rischio è quello che senza efficaci programmi redistributivi, in nome di una presunta eguaglianza, si arrivi ad un livellamento verso il basso che ostacola l’adozione di dispositivi istituzionali che consentano alle migliori pratiche e alle migliori performance, a livello sia di imprese che di singoli lavoratori, di emergere e di essere premiate dal mercato. Oggi, invece, assistiamo alla scomposizione della dimensione industriale manifatturiera che tenta una faticosa ricomposizione, mentre avanzano i nuovi motori finanziari che crescono se si connettono fra loro, acquisendo una nuova influenza sul mercato, ma anche sulla politica. E l’individuo oggi è dominato da forze economiche e tecnologiche che non può in alcun modo controllare e gli odierni “schiavi del salario” come li definisce Diego Fusaro, non costituiscono più una classe in sé e per sé, consapevole della propria posizione e progettualmente intenzionata a superare il capitalismo, ma sono vittime di un’assolutizzazione del mercato, di quel capitalismo post borghese e post proletario che ha come unico fine il proprio illimitato accrescimento che trova nella figura dell’homo precarius, la propria forma specifica. La precarietà, privando i lavoratori del controllo del loro tempo, aggiunge Fusaro, non richiede loro di lavorare sempre, ma di essere costantemente disponibili a lavorare, sempre pronti a rispondere alla chiamata del capo. Ecco perché l’individuo deve costituire pur sempre la cellula di resistenza da cui ripartire, per modulare una strategia di trasformazione e di disobbedienza ragionata. L’auspicio è quello di arrivare a un nuovo spirito d’impresa, come suggerisce Gianfranco Dioguardi, che crei un ambiente di lavoro socialmente motivante, dove prevalga una costante evoluzione della conoscenza, e con essa una nuova etica imprenditoriale, trasformando il nucleo aziendale, in un vero e proprio nuovo laboratorio di sperimentazione sociale e conoscitiva. Insomma, si deve perseguire una qualità del lavoro alla perenne ricerca del meglio in termini di efficacia ed efficienza, riaffermando i valori fondamentali dell’individuo e dell’impresa. Se il manager tradizionale assomigliava al generale von Clausewitz (colui che agisce), il manager della complessità – suggerisce Alessandro Cravera – dovrà assomigliare ad un architetto, un arredatore d’interni, che influenza indirettamente l’esperienza di lavoro delle persone attraverso il contesto organizzativo che avrà costruito. E, aggiunge Amelia Manuti l’organizzazione può e deve essere una leva strategica per lo sviluppo individuale a patto che sia disposta a valorizzare il proprio capitale umano non soltanto in termini di acquisizione di competenze e abilità tecniche, ma anche e soprattutto consentendo lo sviluppo e l’espressione del capitale psicologico di cui ciascun lavoratore è portatore. Leggendo il libro e tutte le sue suggestioni propositive, però, mi sono detto che è, certo, difficile parlare di queste cose in tempi di crisi. Ma è soprattutto in questi momenti che occorre costruire i modelli futuri, ma soprattutto i sogni dei giovani di creare un loro futuro migliore (non togliamo loro anche questa speranza!). E l’Università in questo senso, pur bistrattata e penalizzata dal precedente governo, con tagli di fondi vergognosi, rappresenta un laboratorio efficace di ricerca per le imprese, ma anche per politici illuminati, sperando che leggano questo lavoro e non si limitino a certezze o slogan senza fondamento scientifico che hanno dominato gli ultimi vent’anni della storia nazionale.

Autore: Felice de Sanctis
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