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Il giornalismo degli insulti e delle mistificazioni a Molfetta
29 luglio 2014

Ci sono, a Molfetta, voci simpatiche che si divertono a viziare l’informazione e a diffondere un’immagine della realtà completamente distorta. Si sa, non sono un fan della realtà oggettiva e della verità, il reale è sempre rimesso alle nostre categorie e alla nostra visione. Quello che, però, fa il solito blog molfettese che discute con se stesso (e che non guarda più nessuno), è confondere totalmente gli avvenimenti cittadini e ingabbiarli in una narrazione mistificante, in cui i comitati di quartiere diventano assimilabili ai centri sociali, ogni forma di cittadinanza attiva è riconducibile al comunismo sovietico e in cui persino la categoria dei “talebani” serve a mescolare, etichettare, denigrare l’associazionismo, personalità delle più varie e persino l’arte. Ora, il problema qui non è confutare questa fantasiosa mescolanza di codici, categorie, etichette che dipingono Molfetta come un grande soviet a cielo aperto, come il marxismo realizzato in forme così ortodosse da far invidia ai primi momenti successivi alla rivoluzione d’Ottobre. Colui che gestisce il blog in questione è sicuramente un postmoderno che fa valere con ardore l’aforisma nietzscheano secondo cui “non esistono fatti, solo interpretazioni”. E la sua descrizione di Molfetta, per quanto astratta, fantasiosa, a tratti simpatica e piacevolmente illusoria per chi, in fondo, coltiva antiche simpatie sovietiche, è pur sempre un’interpretazione. Il problema è che l’aforisma di Nietzsche prosegue dicendo “E anche questa è un’interpretazione”. A questo punto il gestore del blog comincia anche ad allontanarsi dalle teorie postmoderne, e il mio maestro Vattimo si sentirebbe offeso dalla mia prima definizione, guardando gli insulti, anche personali, l’assolutezza della visione, la negazione del confronto e della relatività delle proprie idee, che caratterizza gli interventi del blog. Purtroppo la retorica dei talebani, degli “imbecilli”, dei comunisti figli di papà che cercano di occupare il proprio tempo è una trama che spacca la città in due tronconi: i buoni e i cattivi. I secondi, però, sono disincarnati, imbrigliati in un marasma inestricabile di ideologia che priva di dignità le rivendicazioni, l’impegno dei cittadini e delle associazioni, il lavoro di artisti e lavoratori dell’informazione e della conoscenza, le idee di una parte di città. 
Questo non è giornalismo e una costruzione così manichea della realtà non fa che alimentare odio, rancore, invidie, impedendo di costruire spazi di confronto e di elaborazione di alternative e di spazi di convivenza. Il giornalismo di opinione non può che porsi in maniera dialettica rispetto ai processi reali, fornendo spunti, anche critici, che possano favorire il confronto e la discussione nel rispetto delle differenze. Confondere tutto nella “notte in cui tutte le vacche sono nere”, per diffondere falsi miti e stimolare una caccia alle streghe, ai comunisti e ai talebani, significa precludersi qualsiasi possibilità di offrire un contributo alla città. Perché Molfetta non è il romanzo fantasioso del fantomatico blog di cui parliamo. E’ una città attraversata da processi di soggettivazione, da relazioni sociali delle più varie, spesso sussunte in logiche di neutralizzazione e annichilimento, ma altrettanto spesso innervate di slanci emotivi, aperture all’alterità, coraggio di vivere e di affermarsi. Anche in un tessuto produttivo isterilito e diviso in due città, anche nella crisi dell’orizzonte comunitario, anche nell’estetizzazione che caratterizza cultura e grandi eventi, c’è una Molfetta che vive, pulsa e chiede spazi di cittadinanza. E’ la Molfetta reale, oltre le miserie delle mistificazioni.

Autore: Giacomo Pisani
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"Q", scusami per i caratteri, non ho saputo fare di meglio. - Molti, molti anni fa, mi attaccarono l'etichetta di "comunista", ero un ragazzo appena diciottenne e, i diciotto anni di tanti anni fa, vi assicuro, non erano i diciotto anni di adesso. Non ancora affacciato al mondo politico, rimasi alquanto stupito, mi sembrò quasi un'accusa, una di quelle accuse che ti rendono stranamente fiero e soddisfatto: fui felice di essere etichettato “ comunista” e ancora me ne ricordo con orgoglio, ora che sono arrivato nell'arco dei settant'anni. Vi racconto, sperando di non annoiarvi. Era l'anno (ho controllato) 1964. Imbarcato come fuochista su un cargo panamense, iniziai subito come guardia alle caldaie da mezzanotte alle quattro di mattina. Alle sette e un quarto sveglia per effettuare lo straordinario dalle 08:00 fino alle 10.45. Pranzo alle 11:00, riprendendo la guardia alle caldaie dalle 12:00 alle 16:00. Poi dalle 16:00 alle 17:00 un'altra ora di straordinario. Alle 18:00 cena, poi via a riposare fino alle 23:30, di nuovo guardia dalle 24:00 alle 04:00. Cosi per tutti i 30 o 31 giorni, comprese anche le domeniche e, a volte, anche le festività. ( I marittimi contemporanei, almeno i più giovani, ignorano questo modo di lavorare e a distanza di anni, navigando come direttore di macchina e raccontando ai più giovani (nessuno era comunista) questa e altre avventure o disavventure di quei tempi andati, tutti increduli mi guardavano come fossi un marziano). A conti fatti erano 4 quattro ore al giorno di straordinario per un totale di 120 ore mensili. Come di usanza, nei primi giorni del mese successivo il 1° di macchina consegnava a tutto il personale di macchina un “foglietto” su cui c'erano scritte tutte le spettanze sia di straordinario sia di altri lavori extra effettuati con somme da aggiungere alla paga contrattuale. Prendo il mio foglietto e guardo controllando quanto scritto: “straordinario 90 ore”!!!!!!!! Come, non devono essere 120 ore? Mi detti subito da fare per capire cosa fosse successo. Tutto il personale di macchina, sott/li e bassa forza mi dicono che è così e basta, va bene così perché si lavora ed è quello che conta. Non resto soddisfatto. Mi rivolgo al mio capo servizio, il caporale, il quale mi scarica subito dicendo che non può farci niente e di fare attenzione a non creare problemi e rovinare la “piazza”. Subito gli rispondo che può ritenersi non più il mio capo servizio, perché un “responsabile” di un personale, deve anche saper difendere il proprio personale. Mi manda a “scaricare”, gli rispondo per le rime. Di rimando insinua che… “a bordo sono arrivati i comunisti”! Vado avanti. Salgo al piano superiore e chiedo del 1° Uff/le di macchina, riferendo subito quanto detto al caporale. Pur dandomi ragione, mi dice di rivolgermi subito al Direttore di macchina perché è lui il responsabile di tutto. Mi presento al Direttore il quale mi chiede cosa vorrei chiarire. Faccio presente il mio caso (che poi sarebbe stato il caso di tutti). Mi dice che il problema deve essere fatto presente in Compagnia perché queste sono le disposizione, chiamando in causa anche il Comandante il quale mi ripete la stessa nenia. Mi appello all'assurdo del caso in quanto avendo lavorato per 120 ore, pagandomi solo 90 ore, lo ritengo un furto bello e buono, anche un'ingiustizia, una prepotenza, chiamando in causa le responsabilità dirette del Direttore e Comandante quali responsabili ognuno del proprio personale, visto anche il protrarsi chissà da quanto tempo questo assurdo quanto miserabile modo di approfittare della gente. Vengo subito respinto da entrambi con l'infamante etichetta di: C O M U N I S T A! - Si – risposi con altezzosità piacevole – se i comunisti sono quelli che chiedono il giusto, chiedono il lavoro fatto onestamente e ribellandosi alle angherie del padronato, sono un “COMUNISTA E NE SONO ANCHE FIERO.” Ebbi le mie 120 ore, poi con una scusa ancora più ignobile e misera, mi sbarcarono subito al ritorno in Italia. Continuai a fare il COMUNISTA anche quando dopo anni, per capacità e merito diventai Direttore di Macchina. Tempi e culture nel frattempo cambiavano anche velocemente, continuavo a comportarmi da comunista, trattando sempre il personale affidatomi da comunisti non senza alterchi e richiami dai responsabili Amministrativi e Armamento della Compagnia di Navigazione cui prestavo servizio. Tutto poi cambiò. Il lavoro diventò – a mio parere – un qualcosa simile alla prostituzione, senza dignità, tutto solo per il denaro, guadagnare di più in modo concorrenziale con chi invece bisognava collaborare e vigilare. Avevo l' impressione che una “moderna schiavitù” fosse dietro l'angolo. Resto fiero e orgoglioso di essere stato un C O M U N I S T A.




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