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Il don Tonino scomodo
20 aprile 2015

Pubblichiamo l’articolo che Gianni Antonio Palumbo, apprezzato redattore di “Quindici”, ha scritto nel numero di domenica 19 aprile del settimanale diocesano “Luce e vita”, per ricordare l’anniversario dei 22 anni dalla morte del servo di Dio don Tonino Bello.

Sono trascorsi ventidue anni dalla morte di Mons. Antonio Bello e, mentre è in corso il processo di beatificazione, la sua figura resta un punto di riferimento irrinunciabile per quanti l’hanno conosciuto o hanno recepito il suo messaggio di speranza. 

Eppure non possiamo esimerci dal manifestare l’impressione che negli ultimi anni si ricorra un po’ troppo spesso, e non di rado impropriamente, al nome di don Tonino. Ognuno è custode di un aneddoto, ognuno può rammentare una frase indirizzatagli a bella posta dal compianto vescovo. Non di rado ci si vanta di aver goduto di un rapporto privilegiato con lui e, per carità, il più delle volte non si tratta di mere millanterie... Don Tonino era infatti un vescovo che camminava accanto alla sua gente, che si faceva carico delle problematiche dei fedeli, esponendosi in prima persona per il bene altrui. Ciò non cancella il fatto che molti di coloro che continuamente citano don Tonino lo facciano più per pavoneggiarsi ed evidenziare sé stessi che per un’effettiva dedizione al magistero e alla testimonianza di Mons. Bello.

Anche i suoi scritti sono oggetto di una sovraesposizione. Riecheggiano nei contesti più disparati; decontestualizzati e spogliati della loro carica contestataria, magari accompagnati da lacrimucce d’occasione e melensaggini varie, finiscono col risuonare quali bellissime frasi d’autore, da Baci Perugina. Eppure don Tonino era tutt’altro. Era tutt’altro quella ch’è stata, a buon diritto, definita la “stagione della fioritura”. 

Innanzitutto, è necessario sottolineare che, in questa generale “edulcorazione” della figura di Mons. Bello, è stata alquanto obliterata l’idea di don Tonino come vescovo scomodo, prelato fuori dal coro, cui non sono state lesinate, nel corso del suo episcopato, critiche anche feroci. L’agiografia forse non lascia intuire sufficientemente la forza “eversiva” delle idee di chi affermava energicamente che la Chiesa, perché la sua testimonianza riacquisti l’efficacia necessaria, debba deporre “la brocca della ricchezza”. Facendosi povera, essa deve abbandonare “i segni del potere”, per vivificare se stessa e i fedeli attraverso “il potere dei segni”. In questa chiave si spiegano la Cinquecento, la croce e il pastorale d’ulivo del Salento, il “grembiule” che unifica le insegne di Marta e Maria.

Non di rado, nell’atmosfera zuccherosa dei nostri Natali, si sono levati i suoi “auguri scomodi”, che rammentavano l’aura ‘spartana’ di quella nascita di cui ben poco resta nei nostri presepi scenografici e nei cerimoniali sfarzosi. “Ho paura che questa sera in quel presepe che mi hanno chiamato a benedire, voi, Maria e Giuseppe, non ci sarete. E neppure il bambino Gesù. Chi sa, sarete forse sulla provinciale Molfetta-Terlizzi, nello sconnesso tugurio dove, dopo venti secoli di civiltà cristiana, siete state ridotti ancora una volta a trovare un rifugio di fortuna”. E agli sfrattati don Tonino ha aperto le porte del palazzo vescovile. Si è prodigato per i tossicodipendenti, per gli immigrati – anche clandestini – come nel caso di “Gullit” o degli albanesi sbarcati a Bari nel 1991, che Mons. Bello soccorreva, denunciando la penuria di solidarietà, poi confermata dalla decisione di rimpatrio da parte del Governo italiano.

Anche il suo impegno per la pace, culminato nella marcia di Sarajevo del dicembre 1992, compiuta a dispetto del “drago” che avanzava, è stato tutt’altro che “pacifico”. Soprattutto nel momento in cui egli sottolineava come l’esortazione alla pace non dovesse essere mai disgiunta dall’anelito alla giustizia, asserzione – questa – diventata decisamente “destabilizzante anche nelle nostre Chiese”. Quanto sorriderebbe dinanzi all’immagine smancerosa che di lui si perpetra chi, a proposito di san Francesco, riteneva riduttiva l’icona di un “romantico innamorato della natura” e ne esaltava l’indole di ‘combattente’ per la giustizia e la pace, modernissima nella sua lungimiranza (“in lui il concetto di guerra, di ingiustizia, di scempio ecologico si sintetizzavano in una visione unica”)?

Uno degli aspetti più innovativi della figura di don Tonino ci appare la sua mariologia. Non un’immagine conforme ai dettami delle pinzochere, ma una figura che ha sapore di primavera e di freschi palpiti giovanili. Una fanciulla che ha condiviso con le compagne “la gioia degli incontri, l’attesa delle feste, gli slanci dell’amicizia, l’ebbrezza della danza, le innocenti lusinghe per un complimento, la felicità per un abito nuovo”. Una Maria di frontiera, che ci tende la mano “sul limitare decisivo della nostra salvezza” e non respinge sdegnosamente chi sia privo di passaporto. Altri sono i suoi parametri. La Maria struggente e umana, tanto umana, che in Quella notte a Efeso si commuove al pensiero di Giuda, emblema di coloro che non hanno avuto fortuna nella vita e, per rabbia, per sdegno, per un’inquietudine senza confini, sono pronti a svendersi e a svendere gli affetti per trenta denari. Una Maria ragazza di Nazaret, di Chernobyl, della Terra dei fuochi e di qualsiasi Paese violato dall’umana insipienza.

Quindi, piuttosto che avvalerci dei pensieri bellissimi di Mons. Bello per colorire di poesia le nostre inamene giornate, sarebbe il caso, nel generale pullulare di figli e figliocci spirituali, di porci questa domanda: chi sull’esempio di don Tonino si impegna a mettere in pratica il Vangelo? È una domanda cui solo un’attenta riflessione, forse, potrà offrire una risposta.

Autore: Gianni Antonio Palumbo
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