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Gli orrori della Shoah raccontati da nonno Piero Terracina agli studenti di Molfetta. Per non dimenticare il nazifascismo
10 marzo 2015

MOLFETTA - Tutti noi abbiamo ascoltato con commozione storie, guardato film o letto libri sulla Shoah, ma quasi sempre mantenendo quel distacco con cui si guarda alla storia passata, ad un evento lontano da noi, a qualcosa che purtroppo è accaduto ma che pensiamo non possa ripetersi. Diverso è leggere la concretezza del dolore causato dagli uomini agli uomini sul volto di Piero Terracina (foto), sopravvissuto al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau e cittadino onorario di Molfetta, quando ne parla nel suo modo delicato ed ovattato per non urtare la sensibilità di chi ascolta. Nonno Piero, come si lascia chiamare affettuosamente, ha incontrato gli studenti presso l’Istituto Professionale “Mons. Bello”.
Ad accoglierlo con calore la preside dell’Ist. Professionale, Maria Rosaria Pugliese, la preside del Liceo Scientifico “A. Einstein”, Margherita Anna Bufi, il Sindaco Paola Natalicchio, l’Assessore alla cultura Betta Mongelli e l’Orchestra d’Istituto dell’I.I.S.S “A. Einstein” di Molfetta, nata nel percorso di sensibilizzazione sul tema della Memoria e diretta da Giovanni Carelli.

Ad accompagnare Piero, la storica presso l’Università di Bari, Elisa Guida che spiega il meccanismo dei pregiudizi nei vari periodi storici: il razzismo serve a generare consenso verso il potere politico ed è attraverso la discriminazione di una minoranza che si realizza. Per costruire un sistema totalitario è necessario porre un gruppo di persone contro l’altro, infatti il fascismo nasce come meccanismo razzista ed è stata questa la logica di fondo che ha portato alla Shoah, in cui la maggior parte degli italiani ebrei furono denunciati dai loro stessi connazionali.
Poi, interviene Piero: “Le vittime tedesche furono 11 milioni di esseri umani, di cui 6 milioni ebrei. La Germania nazista e l’Italia fascista non li riteneva degni di vita e li diede alle fiamme nei forni crematori. Raccontare Auschwitz significa descrivere l’orrore e, se scendessi nei particolari, non mi credereste. Vi basti sapere che regnava solo violenza e morte. Il 7 aprile 1944, giorno in cui le SS tedesche, accompagnate da due italiani fascisti che ci conoscevano e non ebbero scrupoli a condannarci a morte per 5.000 lire ad ebreo, entrarono in casa mia per catturare me e la mia famiglia, non fu il giorno in cui tutto ebbe inizio. Il nostro cammino era già segnato dal 5 settembre 1938, quando il Gran Consiglio del fascismo emanò la prima legge contro gli ebrei, riducendoci a cittadini senza diritti.
Non avevo ancora 10 anni quando fui messo fuori dalla scuola da una maestra che mi voleva bene, ma che non esitò ad applicare la legge, perché in quegli anni la gente accettava di buon grado le decisioni di Mussolini.
Le leggi contro gli ebrei furono in tutto 87 e ciascuna impediva loro di fare qualcosa: mio padre, un professionista, perse il lavoro dopo essere stato cancellato dall’albo in quanto ebreo e i miei fratelli maggiori furono costretti ad abbandonare gli studi per lavorare. Io venivo protetto dai miei cari e continuavo a studiare nella scuola ebraica, dove mi ero fatto nuovi amici ed ero felice. Il 16 ottobre del ‘43 riuscimmo a scampare alla cattura, ma non avvenne lo stesso il 7 aprile del ’44: quella sera era Pasqua e io e miei fratelli, che ormai dormivamo in cantina, eravamo riuniti con il resto della famiglia. Quando suonarono alla porta fu mia sorella Anna ad aprire. Erano le SS con mitra e bombe a mano che con un biglietto ci intimarono di uscire in 20 minuti portando con noi tutto ciò che di prezioso avevamo.
Nel carcere di Regina Coeli ci presero le impronte prima di trasferirci al campo di Fossoli e poi di qui alla stazione di Carpi dove, stipati in carri da bestiame, che furono fermati solo in provincia di Bolzano per far fare i bisogni a 600 persone tutte insieme, giungemmo alla stazione di Auschwitz. Appena aperti i vagoni cominciò il massacro e solo uno scarso 20% entrò nel campo. Ci tolsero tutto, abiti, peli e persino il nome che venne sostituito da un numero. Era il 23 maggio.
Ci fu detto subito che non avremmo mai più rivisto i nostri familiari, se non ridotti in fumo e in scintille che si alzavano dai forni crematori. Della mia famiglia composta da otto persone, solo io sono uscito da quel campo. A volte il pensiero ritorna e diventa insopportabile”.
In vari momenti del suo racconto Piero si interrompe, provato dai ricordi, poi alla fine conclude: “Ritengo che nessuno dei sopravvissuti abbia mai raccontato tutto, per il timore di non essere creduti. Io non ne parlo per non creare raccapriccio e perché gli artefici di tale orrore erano uomini, persone normali, spesso molto intelligenti che appartenevano ad uno stato civile, che amavano le arti e che la sera suppongo baciassero i propri figli. Per quale motivo è accaduto? Se rispondessimo a questa domanda sarebbe come darne una giustificazione. Mi rivolgo ai ragazzi: fate in modo che siano sempre i diritti a vincere sulla sopraffazione, impegnatevi per voi, per gli altri e per i figli che verranno”.

© Riproduzione riservata

Autore: Marianna Palma
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