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Echi testamentari nel dialetto di Molfetta I nostri detti memorabili
15 gennaio 2007

Fin dai tempi dell'Itala vetus, cioè della Bibbia italica nella vecchia traduzione latina risalente al II-III secolo d. C., e della Vulgata editio, cioè della Volgata di San Girolamo e altri traduttori, redatta tra il 383 e il 405, diversi passi latini dell'Antico e del Nuovo Testamento sono entrati nella mente dei credenti cristiani. Così, in un lungo percorso secolare, anche il popolino più ignorante ha orecchiato frasi e parole latine e le ha riprese, adattandole e deformandole, nei contesti dialettali più diversi. Tra i modi di dire in vernacolo legati al Vecchio Testamento, ce n'è uno caduto ormai in disuso: Vè facénnë u pópli mè (Sta facendo una volgare e sconveniente pubblicità). Nella coda di questo detto è possibile riconoscere e isolare il genitivo latino populi mei, che ricorre in alcuni libri veterotestamentari. Il primo è quello dell'Esodo (3, 7-10), in cui si legge: «Cui ait Dominus: “Vidi afflictionem populi mei in Aegypto [...] sed veni, mittam te ad pharaonem, ut educas populum meum, filios Israel, de Aegypto”. (Il Signore disse a lui [a Mosè]): “Ho visto l'afflizione del popolo mio in Egitto [...] ma vieni, ti manderò dal faraone, affinché tu faccia uscire il popolo mio, i figli d'Israele, dall'Egitto”». Un altro riscontro si trova nelle Lamentazioni di Geremia (2, 11): «Defecerunt prae lacrimis oculi mei, conturbata sunt viscera mea; effusum est in terra iecur meum super contritione filiae populi mei, cum deficeret parvulus et lactans in plateis oppidi. (I miei occhi sono consumati dalle lacrime, le mie viscere fremono; il mio cuore è a pezzi per lo scempio della figlia del popolo mio, mentre vengono meno fanciulli e lattanti nelle piazze della città)». Un'altra occorrenza si coglie nel rimprovero della corruzione di Israele mosso da Osea (4, 8): «Peccata populi mei comedent et ad iniquitatem eorum sublevabunt animas eorum (Si nutriranno dei peccati del popolo mio e spingeranno gli animi all'iniquità)». Un ennesimo riferimento è ravvisabile anche nel primo discorso di Michea (1, 9), in particolare nella lamentazione sulla sorte dei regni d'Israele e di Giuda: «quia desperata est plaga eius, quia venit usque ad Iudam, tetigit portam populi mei usque ad Hierusalem (perché la piaga di essa [di Samaria] è incurabile, perché si è estesa fino a Giuda, ha percosso la capitale del popolo mio fino a Gerusalemme)». Un proverbio ancora in uso sembra in qualche modo collegabile all'Antico Testamento. Si tratta di Vòëscë dë pùëpëlë, vòëscë dë Ddàjë (Voce di popolo, voce di Dio), che pare avere un suo antecedente nel libro di Isaia (66, 6): «Vox populi de civitate, vox de templo, vox Domini reddentis retributionem inimicis suis (Voce del popolo dalla città, voce che esce dal tempio, voce del Signore che rende il contraccambio ai nemici suoi)». In realtà il passo biblico citato è inserito in una serie di invocazioni, che non hanno un valore propriamente sapienziale. Per questo la matrice del proverbio italiano e dialettale va individuata in un'altra fonte. Lasciando da parte antiche suggestioni greche e latine, è in età altomedievale che si trova il riscontro più calzante, vale a dire nel Capitulare admonitionis ad Carolum di Alcuino da York, dove la sentenza Vox populi, vox Dei è ricordata a Carlo Magno come consolidata ma corrivamente ripetuta e perciò da prendere con estrema cautela, «cum tumultuositas vulgi semper insaniae proxima sit (in quanto la tumultuosità del volgo è sempre vicina alla follia)». Nei Promessi sposi (cap. XXXVIII), invece, il proverbio è citato nella sua valenza positiva. Tra i modi di dire più liberi dal dettato biblico c'è il detto stè a la paparàinë dë Cristë (sta alla manna di Dio), che vale “gode gratuitamente d'ogni ben di Dio”. La manna degli Ebrei cadde ininterrottamente per quarant'anni durante il viaggio nel deserto fino all'entrata in Palestina (cfr. Esodo, 16). La paparàinë, propriamente, è il rosolaccio (Papaver rhoeas L.), le cui piantine novelle per antica tradizione sono consumate dagli intenditori in insalata mista (fógghjë mësckàtë). Un adagio semidialettale risalente a un passo dell'Antico Testamento è Du ênëmë e un corpo fênnë (Due anime e un corpo fanno), detto del marito e della moglie. L'origine va rintracciata nella Genesi (2, 24): «relinquet homo patrem suum et matrem et adhaerebit uxori suae et erunt duo in carne una (l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e saranno due in una carne sola)». Il pensiero sarà ripreso da San Paolo nella Lettera agli Efesini (5, 31). Anche tra i proverbi derivati dal Nuovo Testamento non mancano quelli semidialettali, come Ci di cortéllë êmmêzzë, di cortélle móërë (Chi di coltello ammazza, di coltello muore), che rimonta a una sentenza dell'Apocalisse giovannea (13, 10): «Qui in gladio occiderit, oportet eum gladio occidi (Chi ucciderà con la spada, bisogna che sia ucciso dalla spada)». Rimproverando Pietro (identificato solo da Giovanni, 18, 10), che dopo la cattura di Gesù aveva mozzato un orecchio a Malco, il Salvatore, secondo Matteo (26, 52), aveva già espresso la stessa ammonizione: «Qui acceperint gladium, gladio peribunt (Quelli che prenderanno la spada, periranno di spada)». Di qui deriva l'apoftegma Qui gladio ferit, gladio perit (Chi di spada ferisce, di spada perisce). A ogni bambino particolarmente irrequieto e vivace – il classico demonietto o diavoletto – un tempo si affibbiava la locuzione attributiva di diàvëlë dë la tèrza dëmènëchë (diavolo della terza domenica). L'espressione è registrata nel Nuovo lessico molfettese- italiano di Rosaria Scardigno, secondo la quale si tratterebbe di un diavolo «non meglio identificato» (p. 194). In realtà il demone in questione esiste ed è il Daemon mutus, che tradizionalmente dava il nome alla terza domenica di Quaresima, con esplicito rinvio a un passo del Vangelo di Luca (11, 14): «Egli [Gesù] stava cacciando un demonio muto. Quando il demonio fu uscito, il muto parlò e le turbe ne rimasero ammirate». L'episodio dell'indemoniato di Cafarnao, un po' variato, è pure in Matteo (12, 22- 23). Anche in Marco (9, 17) si parla di un «demonio muto» impossessatosi di un epilettico. Una similitudine antica è com'a Géësë ndèsèrtë (come Gesù nel deserto), attribuita a persone in solitudine, prive di conforto e di compagnia. Essa prende le mosse dal Vangelo di Matteo (4, 1-2): «Tunc Iesus ductus est in desertum ab Spiritu, ut temptaretur a diabolo; et cum ieiunasset quadraginta diebus et quadraginta noctibus, postea esuriit (Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo; e dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame)». La sequenza Iesus in desertum è anche in Luca (4, 1). Commovente è l'espressione lavà lë pìëtë a Ccrìstë (lavare i piedi a Cristo), che vuol dire “piangere a dirotto, sconsolatamente”, come, nella casa di Simone il Fariseo, fece Maria Maddalena, che bagnò di lacrime i piedi di Gesù, li asciugò con i suoi capelli, li baciò e li unse di profumo (Luca, 7, 37-37). Proverbiali sono anche rë cchjè dë Sêm Bìëtë (le chiavi di San Pietro), ironicamente citate in presenza di nutriti mazzi di chiavi o di grosse chiavi, come quelle della bandiera del Vaticano e di molti quadri o statue dell'apostolo, espressioni concrete di quelle simboliche profetizzate da Gesù a Simon Pietro, quando disse: «Tibi dabo claves regni coelorum (A te darò le chiavi del regno dei cieli)» (Matteo, 16, 19). Se ne ricorderà Dante Alighieri nell'Inferno (XIX, 92 e 101) e nel Paradiso (XXIII, 139). Interessante è pure l'epiteto u ricchë pëlò (il ricco epulone), che non vale “mangione, gavazzatore”, come in italiano, bensì «esibizionista di ricchezze dubbie» (Scardigno, p. 383) e che è desunto dall'omonima parabola riportata da Luca (16, 19-31). Notevole è poi l'espressione aspëttà com'o Vérmëssàjë (aspettare come il Vero Messia), cioè “attendere ansiosamente”. Accanto a Vérmëssàjë c'è anche la forma semplice Mëssàjë (Messia). L'attesa messianica è resa molto bene dall'annunzio di Andrea al fratello Simon Pietro: «“Invenimus Messiam”, quod est interpretatum Christus (“Abbiamo trovato il Messia”, che vuol dire il Cristo)»; e poi viene esaltata dall'episodio della fervente Samaritana: «Dicit ei mulier: “Scio quia Messias venit, qui dicitur Christus; cum ergo venerit ille, nobis adnuntiabit omnia”. Dicit ei Iesus: “Ego sum, qui loquor tecum” (Gli dice la donna: “So che viene il Messia, che è detto Cristo; quando dunque egli sarà venuto, c'insegnerà tutto”. Gesù le dice: “Il Messia sono io, che parlo con te”)» (Giovanni, 1, 41 e 4, 25-26). L'attesa finale si concretizza nella dì du Gëdìzzjë, nel giorno del Giudizio, che in contesti dialettali ironici può diventare un “imprecisato giorno di là da venire”. Invece u Gëdìzzjë per antonomasia è solo il “giudizio universale”. Secondo l'escatologia cristiana, il Giudizio finale avverrà al termine dei tempi, quando vi sarà la resurrezione della carne, con la quale i corpi risusciteranno e si riuniranno alle anime. Dio giudicherà tutti gli uomini in base alle azioni da loro compiute durante la vita, e destinerà ciascuno al Paradiso oppure all'Inferno. Questa dottrina, ovviamente, fa riferimento agli insegnamenti di Gesù (cfr. Matteo 25,31-46; Marco, 13, 24- 37; Luca, 11, 31-32; 17, 24-30; 21, 25-36; Giovanni, 5, 25-29, ecc.). Ancora molto usata è l'espressione scì o mênnê da Róetë a Pelàtë (andare o mandare da Erode a Pilato), cioè essere sbattuto o rinviare da un posto all'altro, come accadde a Gesù, che da Ponzio Pilato fu mandato ad Erode Antipa e da questo rispedito a Pilato (Luca, 23, 1-11). Quasi dimenticato, infine, è il paragone com'a la chêmmìsë dë Cristë (come il camice di Cristo), vale a dire “bistrattato e abbandonato alla sorte” come la tunica inconsùtile del Salvatore sorteggiata tra i quattro soldati del Golgota, che si erano già divise equamente le vesti del Nazareno (Giovanni, 19, 23-24).
Autore: Marco I. De Santis
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