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E la chiamano estate il sapore del Sud nell’amarcord di Valentino Losito
15 luglio 2019

Ho letto con piacere il libro “E la chiamano estate” del collega Valentino Losito, al quale mi legano rapporti di amicizia e di lavoro di oltre 20 anni nella redazione di Bari del quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”, e ho scoperto il piacere di rituffarmi in quel Sud povero, quando eravamo felici con l’orgoglio di essere umani di dividere il pane e abbracciarsi contenti dopo una giornata al mare. Ecco il piacere di riconoscerci come persone, non soggetti anonimi di un universo digitale, ma figli di quella cultura contadina che profumava di verità, quell’amore per la verità che ci ha insegnato don Tonino Bello. Il valore dell’amicizia era tutto nella condivisione naturale e spontanea, senza riserve. Il libro racconta le estati al mare di una famiglia di Bitonto in “villeggiatura” (allora le vacanze si chiamavano così) a S. Spirito, esodo quotidiano faticoso: si partiva e si tornava nella stessa giornata, il tempo di fare il bagno, con le borse a metà tra dispensa e armadio, che contenevano roba da traversata del deserto, e non di quattro o cinque ore al mare, ironizza l’autore. E le cabine del lido trasformate in dispense di pomodori, funghi, carciofi olive e contorni vari. Il mare dietro casa, atteso e desiderato per un anno. E l’estate dell’epoca con le colonie dei bambini, le lampare dei pescatori, il grande carrubo, il gelato al limone, la “sacra” controra. Sembra un secolo fa, ma è appena ieri, il tempo della nostra infanzia che si fa nostalgia. Ma qui nelle pagine di Valentino, c’è tutto il sapore del Sud e dell’elogio della lentezza. Era l’estate dei timidi, senza soldi e senza motorino – ricorda Losito – con gli amori nascosti e non confessati, le feste da ballo sui terrazzi, con ragazze in libertà vigilata, anni in cui prevaleva il senso del dovere e dell’onestà. Il tram tra gli ulivi che viaggia verso il mare, il carretto, le giostre, l’odore dei binari, la fabbrica degli aquiloni, la malinconia di Piripicchio, i nostri giochi perduti: sono alcuni dei titoli dei racconti del “librino” come modestamente chiama Valentino questo suo lavoro. L’autore ci restituisce il ricordo, con “gli appunti della memoria”, attraverso quadretti densi di malinconia, che sono il profumo della felicità, un amarcord che si fa rimpianto per una spensieratezza perduta, dove l’incontro con l’altro, non è sospetto, ma gioia condivisa, soprattutto nella diversità. Una lezione per l’attuale società dove l’odio è la cifra di un tempo senza valori. Quei quadretti li guardi e ti ritrovi proiettato nel passato attraverso una sorta di macchina del tempo, alla ricerca di quella parte di anima dimenticata, di quei sentimenti accantonati, quasi con vergogna, per nascondere il piacere della noia alla controra e il desiderio di quell’ozio che è l’essenza del tempo senza tempo. Il “tempo sospeso”, come lo definisce l’autore. Un libro intenso di poesia, quella poesia del vivere, che è stata realtà di vita vissuta col piacere di meravigliarsi, ora che la tecnologia ci ha tolto la capacità, ma anche la voglia di stupirci, perché tutto appare scontato, anche la villeggiatura, anzi la vacanza, che ha una dimensione diversa. Eravamo poveri, ma felici e la chiamavamo estate, oggi viviamo nell’inverno del nostro scontento. © Riproduzione riservata

Autore: Felice de Sanctis
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