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Concita De Gregorio incanta e commuove con la storia di Irina La giornalista e scrittrice nella terza giornata del Festival Il teatro o è civile (o non è) ha presentato in piazza a Molfetta il suo ultimo libro "Mi sa che fuori è primavera"
26 luglio 2015

MOLFETTA - “Quando una città parla di teatro, è come se si trovasse a parlare di sè stessa, quasi si vedesse rispecchiata nella sua immagine rappresentata”. Con queste parole di Federico Garcia Lorca, Molfetta ha dato il via alla terza serata del Festival di Teatro Civile; sarebbe difficile trovare citazione più adatta, visto lo spessore civile e sociale dei temi che caratterizzano gli appuntamenti di questa settimana nella nostra città. Inauguratosi con lo spettacolo “Finanza killer”, a cura di Itineraria teatro, la seconda serata è stata curata dal Teatro dei Cipis e del Carro dei Comici con lo spettacolo “Molfetta è civile (o non è)”; si sono toccati temi come la crisi finanziaria e l’inquinamento dell’ILVA nella nostra Regione. Giovedì è stata la volta del primo ospite di livello nazionale: la scrittrice e giornalista Concita De Gregorio.

Ad introdurre la serata, tre rappresentanti di tre diverse associazioni teatrali: Francesco Tammacco (“Il carro dei comici”), Marianna De Pinto (“Malalingua teatro”) e Corrado la Grasta (“Teatro dei cipis”); perché l’organizzazione di un Festival di Teatro Civile vuol dire anche condivisione di spazi e creazione di un dialogo. Non era mai capitato che un tale progetto dedicato al teatro venisse pensato e proposto a Molfetta e ciò è stato possibile anche grazie alla capacità di poter mettere insieme realtà associative che prima si guardavano con sospetto e che adesso formano una squadra e intessono una rete.

Preceduto dall’esecuzione di un brano musicale del consulente artistico Federico Ancona, “In Persia mi ritrovo”, il reading curato da Concita De Gregorio verteva sul racconto racchiuso nel suo ultimo libro “Mi sa che fuori è primavera”. Seduta su un alto sgabello al centro della scena, la capacità affabulatoria della giornalista e la sua presenza scenica non hanno smesso di interessare il pubblico numeroso, che affollava il Chiostro di San Domenico.

“Nel mondo di oggi siamo abituati ad una comunicazione mediata, ad esempio, da uno schermo; ma stasera che siamo qui in carne ed ossa, presenti gli uni agli altri, vorrei dedicare un po’ di tempo al dialogo”, esordisce Concita, perché recuperare la dimensione dell’incontro, dello scambio e del dialogo è proprio la motivazione che l’ha spinta a scrivere questo libro. Nasce, infatti, dalla voglia di poter raccontare un incontro inaspettato, inatteso ma rivelatosi terapeutico che le ha cambiato profondamente la vita e che ha pensato potesse cambiarla anche alle altre persone, se l’avessero letta. Sentire la necessità di comunicare una storia, ancorchè terribile e tragica, sapendo perfettamente a chi raccontarla vuol dire avere la forza di figurarsela davanti agli occhi, metterla in scena (come accade nel teatro) e ripetere a sé stessi che quel fatto è accaduto, che quel dolore esiste, che fa paura, ma che c’è e che non si può far finta di non vederlo o, peggio, che non si può nasconderlo perché se ne prova vergogna.

L’incontro di cui Concita De Gregorio parla nel suo libro è quello con Irina Lucidi, originaria di Ascoli Piceno, avvocato di una multinazionale. Sposatasi con un ingegnere svizzero, ha due bambine, ma, in seguito a problemi di convivenza con il marito, decide di separarsi. Un bel giorno, il 31 gennaio 2011, il marito sparisce con le figlie senza lasciare traccia, si getterà sotto un treno a Cerignola il 3 febbraio dello stesso anno e delle figlie Irina non saprà più nulla. Irina dice che non esiste una parola per definire il suo ‘stato’: lei è una mamma che ha perso le sue figlie gemelle a causa di una tragedia familiare. E nelle nostre lingue, paradossalmente, non esiste parola che indichi un lutto simile, mentre sono rimasti termini come ‘vedovo/a’ o ‘orfano/a’. Quasi che la morte di un giovane non sia equiparabile a quella di un anziano o di un adulto, perché solo questi ultimi sono depositari di una saggezza da compiangere.

“Faccio il mestiere di raccontare storie”, dice Concita, “e come per il mestiere dei medici, questo può essere un rischio, perché è sconsigliabile lasciarsi commuovere e coinvolgere emotivamente troppo dai fatti di cui si è testimoni o che ci vengono raccontati”. “Irina è arrivata un bel giorno in casa mia”, prosegue, “in un pomeriggio in cui ero di malumore per il classico rumore di fondo che connota la vita quotidiana di tutti noi e questo capita fin troppo spesso, perché, certe volte, è come se si andasse in giro tutti con un sacchetto dell’immondizia in mano; quel sacchetto indica tutto il grigiore della nostra vita e quando incontriamo amici o parenti non facciamo altro che lamentarci del suo peso e dell’odore sgradevole che emana”.

Dopo anni in cui Irina non ha fatto altro che cercare le sue figlie, Irina ha ‘scelto’, per necessità, di parlare con Concita, perché lei la aiutasse maieuticamente a tirare fuori tutto il dolore che aveva dentro, a riflettere sull’insieme di frammenti in cui la sua vita si era rotta dopo quel momento. “A quel punto,” spiega Concita, “ho interpretato il suo bisogno di ricomporre e di rimettere in ordine quei frammenti cercando di cogliere il nesso che li unisce e ho pensato di fare come per quei vasi giapponesi che quando si rompono vengono riparati con filature d’oro e d’argento perché non si nasconda il fatto che quell’oggetto si sia rotto, ma che, anzi, in virtù di questo assuma più valore”.

Rompersi, così come per gli uomini provare dolore, non implica il dover necessariamente mascherare questa vergogna; si può decidere anche di rendere visibile il numero di frammenti senza nascondere le piccole rotture con un’insensata vergogna e pensando di parlare delle proprie colpe, delle proprie omissioni, come anche delle violenze fisiche e psicologiche che subiamo. Chi è debole non deve far finta di non esserlo o mascherare la colpa di non sentirsi mai abbastanza poiché questa colpa non esiste in realtà.

Da un primo incontro durato soltanto un’ora, il dialogo tra Irina e Concita si è poi dilungato per sei giorni, durante i quali hanno insieme pianto, riso e lasciato cadere una filatura d’oro e d’argento per ricomporre il quadro di una vita andata in mille pezzi. “Mi sa che fuori è primavera” non è il racconto di una storia di cronaca nera, ma la storia di una donna che ad un certo punto della sua vita, si è chiesta se potesse (o volesse) continuare ad essere soltanto la vittima di una tragedia, oppure se potesse sfruttare la possibilità di tornare ad essere un’altra persona rispetto al modo in cui gli altri sono abituati a vederla. È vero, in alcuni casi molto particolari ed estremi, il dolore può uccidere, ma bisogna considerare che molti altri casi sono quelli in cui il dolore, il lutto e la sconfitta ti rendono il privilegio di conoscere il confine delle cose e vivere la vita da un ottica diversa e, perché no, da apprezzare.

Autore: Marina Mongelli
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